NEL MONDO ACCANTO

Diario di viaggio di Carola Susani

 

Alcuni passi del racconto letti da Tamara Bartolini

 

Primo percorso: Porta San Sebastiano – Decima, in bici

Inforco per la prima volta la bici in città, i compagni di viaggio per fortuna sono più esperti. Tutti tranne me usano abitualmente la bici. Fernanda, che investo del ruolo di mia guida, Roberto, che è un urbanista, Umberto, geologo e naturalista. Carlo che fa le riprese video. Siamo dentro un lembo del parco dell’Appia Antica, alle nostre spalle, c’è la Cartiera latina. Nei paraggi passa l’Almone, anche se io non l’ho visto. L’acqua del fiume nel tempo è stata usata per follare la lana, infeltrirla, renderla compatta, quasi impermeabile e poi per fare la carta dagli stracci. Di Almone mi ricordo che era il fratello di Silvia, morto per vendicare il cervo di sua sorella. L’acqua ci sarà compagna in questo viaggio.

Sotto gli alberi fa fresco, anche se l’aria è umida e le zanzare sono ancora vivaci. Mentre con la bici arranco sui montarozzi, una ragazza con un grosso trolley lilla appare sul sentiero. Ha un’aria decisa, vuole raggiungere la Garbatella attraversando il parco. Ha sbagliato strada, è vero, ma il parco provoca questo genere di errori. Nei parchi rischi di perdere tempo, di perdere il controllo. I parchi romani sono insidie perché ricordano che l’abitato non è tutto. A Roma s’incuneano, sono zone poco pettinate che portano il confine della città al suo interno.

Uscendo dal parco, il sole è un colpo. Lo è anche il rumore, un rumore di fondo fisso, concreto, grigio. L’ansia di calcolare male le distanze, di attraversare nel momento sbagliato, di non frenare in tempo, non mi lascerà fino alla pista ciclabile. Per me, che tutto sono tranne che una pedalatrice esperta, la compresenza delle auto e delle bici è traumatica. Se non c’è confine fra noi e loro, il confine è la loro lamiera – e il nostro corpo. Poi ci si mettono i camion di carico e scarico che occupano placidi la carreggiata (la mole li rende placidi, la vulnerabilità rende noi reattivi come cani di taglia piccola).

Il nostro viaggio non si allontana mai troppo dal confine, per ora è il confine fra il verde e il costruito. Attorno alla Tenuta di Tor Marancia, vicino ai cassonetti, materassi, una cassapanca in disuso. È sul confine che si raccolgono i residui, le cose abbandonate che non hanno più un posto o alle quali è stato negato, anche le persone che non hanno più dove mettersi finiscono addosso al confine (è facile perdere lo scaffale di questi tempi). Quando vedo un materasso in buono stato abbandonato per strada, penso che sia un regalo a una persona che non ha dove dormire. Diverso, se piove, in quel caso mi sembra un doppio sfregio. Ma oggi è sereno e fa fin troppo caldo.

Una traversa di via di Grotta Perfetta è dedicata a Giana Anguissola, la scrittrice per ragazzi. Mi fa piacere.

Superato il condominio del dopoguerra le cui facciate sono state trasformate in grandi murales (la signora che apre le imposte, potrebbe sporgersi da una testa come Atena da Zeus), ci spostiamo in una strada vicina. C’è una roccia con una storia vulcanica. Mentre Umberto comincia a raccontare, un uomo robusto e serio, dai movimenti lenti, con qualcosa di infantile nello sguardo e nella piega della bocca, mi placca e mi comincia a raccontare pure lui, mi mostra l’andamento della roccia, i sassetti trasparenti. Ha un banco di pesce dall’altra parte della strada. I discorsi suoi e di Umberto si incrociano, e lui è del tutto soddisfatto del fatto che Umberto metta ordine nelle sue belle intuizioni. È il primo degli incontri sulla strada. Il nostro movimento, in bici e poi a piedi, ha il potere di svegliare il mondo accanto. Nel mondo accanto non ci si dispera, ci si appassiona della conoscenza. Chi delle rocce, chi degli alberi. Chi dei corsi d’acqua, chi dei resti – romani, preistorici, etruschi. A volte ci si prende cura di arbitrarie porzioni di spazio. Lì ciascuno è il preciso, lineare esito della sua infanzia. È un posto ben abitato. Ci vogliono degli accorgimenti per entrare. Per esempio, andare contro tempo.

La pista ciclabile sul ponte che guarda il Parco delle Tre Fontane mi riporta da quest’altra parte. A colpo d’occhio, non luogo, periferia urbana: snodo stradale fertile, qualche ailanto, un vivaio, un centro sportivo e sul fondo pini marittimi. È il paesaggio romano contemporaneo a cui sono abituata, inabitabile, che non prevede di essere attraversato a piedi. Ma ci passeremo attraverso in bici.

Eur. Palazzo dei Congressi. Colosseo quadrato. San Pietro e Paolo. Adesso, la paura è svanita e non è ancora arrivata la stanchezza. Comincio a divertirmi a pedalare.

A via Eufrate 9 c’è l’ultima casa abitata da Pier Paolo Pasolini. Dà sulla campagna urbanizzata e sulla Magliana. È il nostro primo incontro con Pasolini. Andiamo nella direzione verso cui andava anche lui, ma ci andiamo di giorno, in gruppo, in bicicletta, sereni. La sua sagoma fatta di nulla sta cominciando ad accompagnarci in auto. Ma per lui è notte.

Per buona parte degli italiani, per i romani, Pasolini è un dio bifronte, della lucidità e delle potenze oscure del corpo; è un santo tutelare e una vertigine. Sembra che nessuno di noi riesca a farne a meno, a smarcarsi. Anche lui frequentava un mondo accanto, a volte simile a quello che incontriamo noi, a volte lontanissimo.

Ripartiamo e andiamo giù, dritti, fino a Decima. La piazza, ci racconta Roberto, è una delle 100 piazze costruite alla fine degli anni ’90, mai molto amata dagli abitanti; è felicemente abbandonata agli arbusti, alle piante spontanee. Mi distendo su un sedile, nuvole di zanzarine mi costringono a rialzarmi. Zanzare tigre, dice Umberto. Umberto apprezza il giardino inselvatichito, c’è un’armonia di riconquista, le piante adatte al clima e al terreno hanno resistito – o si sono riprese quello che era loro.

Acilia – Ostia Antica – Parco letterario Pasolini, soprattutto a piedi

Scendendo alla fermata Acilia della Roma-Lido, mi aspettano Fernanda e Maria. Valuto se il mio leggero equipaggiamento è all’altezza del loro. Sono una camminatrice cittadina, per campi e sentieri vado poco. Al telefono, Fernanda mi ha ricordato le scarpe da ginnastica e ho obbedito. Ho anche lo zainetto, mi sento a posto. La piazza di Acilia ha qualcosa di desolato sotto il sole sciapo.

Ad Acilia, la biblioteca è stata dedicata a Sandro Onofri. Sandro Onofri l’ho conosciuto, scriveva reportage molto belli che dovrei rileggere.

Da Acilia dobbiamo raggiungere il Parco del Drago e imboccare il Sentiero Pasolini. Il sentiero che porta a Ostia Antica (ma l’intenzione è che prosegua fino al mare) è stato ideato da Sven Otto Scheen, traduttore norvegese di Pasolini.

L’area in cui stiamo mettendo piede è zona di bonifica. Andando verso il mare usciremo e rientreremo in queste terre basse. Già mi sembra di avvertire un umido speciale nel fondo dell’aria, ma forse non è più che suggestione o l’effetto della giornata umida. Sui due lati della nostra strada, le Casette Pater, costruite nel 1940 in fibra di legno pressata e cementata, con i tetti spioventi, senza fondamenta. Alcune si riconoscono ancora malgrado gli interventi che negli anni ne hanno cambiato la fisionomia e hanno ridotto o ampliato le dimensioni dei terreni (si può leggere il libro di Pennacchi, Fascio e martello. Le città del duce, sugli insediamenti nuovi di epoca fascista). Mi piace molto quando un elemento che riconosco mi permette di cominciare a leggere un posto nel suo sviluppo temporale. Funziona come una pagina in lingua straniera che si fa comprensibile a partire da qualche parola. Capisco poco, certo. Ma qualcosa. La bonifica e le casette Pater.

Ci immettiamo su una grande strada: un complesso residenziale sembra ancora in costruzione, ma guardando meglio, non lo è più. I lavori sono interrotti. Raggiungiamo la pista ciclabile che costeggia condomini e una scuola, entriamo nel Parco del Drago, e siamo di colpo nel mondo accanto.

Il Parco del Drago, fra Dragoncello e Dragone, è uno dei tanti parchi romani salvati e curati dai cittadini, qui la cura e la presenza sono evidenti, cartelli ti accolgono e ti seguono lungo il percorso. L’ombra fitta ci conforta. Ci fermiamo di fronte a un albero argentato che forma un grande imponente rifugio. Un giovane con il suo cane ci passa sotto e ci racconta del parco, di com’è nato, e di quell’albero, che lui vorrebbe in cortile, al posto del garage, ci parcheggerebbe sotto l’automobile. Ci racconta di un vecchietto che si prende cura del Parco, tagliando l’erba, potando i rami. Al telefono con Umberto, scopriamo che l’albero è un eucalipto australiano. Gli eucalipti erano usati per la bonifica, quelli australiani, questi – luccicanti come una festa – nei giardini. L’uomo che incontriamo subito dopo, che sta curando il Parco come il suo giardino, non ci sembra vecchio. È abbronzato, come uno che lavora al sole, scarmigliato, ci dice che abita lì da vent’anni. Ha separato con un confine di vasi una porzione di parco che interpreta come più intima. Privato e pubblico conducono qui un loro gioco in cui il confine è labile. Poco più avanti finiscono gli alberi, guardando in basso: l’ansa del Tevere.

Il Sentiero Pasolini da un lato ha i campi coltivati, dall’altro, dopo qualche spanna di terra, il Tevere. Il Tevere è più in alto dei campi e il nostro sentiero più in alto dei campi e del Tevere, proprio sul terrapieno di contenimento. Ad intervalli regolari, sulla nostra destra incontriamo dei casotti, c’è scritto sopra SOLLEVAMENTO e poi dei numeri e delle denominazioni. Il primo porta il numero 1° e il nome Dragone. La loro funzione è portare via l’acqua dai campi. La vegetazione che ci accompagna ci ricorda della presenza dell’acqua: canneti che sembrano muraglie. Ho un ombrello giallo che mi protegge dal vento e dal sole. Soffia un vento da ovest, sostenuto e continuo.

A Ostia Antica ci lasciamo confortare dall’armonia del Castello e dell’abitato, mangiamo qualcosa. Prendiamo fiato per l’ultima tappa.

Non solo il tempo mi sconcerta. Anche lo spazio. Da qualche parte in me sono convinta che la condizione naturale dell’umano sia l’ubiquità. Invece, al contrario, ci vuole pochissimo per ritrovarsi nell’assoluto altrove. Essere qui, nel tempo-spazio creato dal camminare (abbiamo percorso quasi venti chilometri), ci ha aperto le porte di un mondo accanto. Il mondo accanto adesso lo abitiamo. Quando chiediamo informazioni lo facciamo da perfette straniere. E così ci rispondono gli autoctoni, con gentilezza e condiscendenza come se venissimo da lontano, in una lingua chiusa e cupa che ci sembra nuova.

Ultima tappa. Il Parco letterario Pasolini

È come entrare in un cimitero. Circondato dall’immondizia, dai magazzini scabri, dalle carcasse di oggetti abbandonati. Un cimitero erboso, senza morti. Le lapidi ci guidano in un circolo vizioso, senza sbocco. Maria dice che Il pianto della scavatrice è il poema di Pasolini che preferisce, io dico: Le ceneri di Gramsci. Sulle panchine, discutiamo del marmo del monumento, di Mario Rosati che ne fu l’autore, delle lapidi con i versi incisi. Ci manca la vista del mare. Questo posto, anche se all’aperto, è claustrofobico. Fernanda, come per reagire, subito prima di lasciare il parco, apre un cancelletto di legno su cui c’è scritto: vietato l’accesso. Titubanti, la seguiamo nel fango, fra le foglie morte. C’è fresco. Fernanda apre la seconda porticina. Andiamo ancora avanti, fra gli arbusti e le canne, all’ombra. C’è un casotto chiuso. Rimaniamo per un momento immobili. In attesa. Da dentro qualcuno deve averci sentito. La porta si schiude piano. Un uomo con gli occhiali ci invita ad entrare: è un casotto di avvistamento della Lipu. Cerchiamo di fare silenzio. Lui, il quarto uomo del mondo accanto, ci spiega che quello che vediamo è un vecchio lago artificiale, che gli uccelli acquatici hanno gradito. Rimaniamo per un po’ a guardare l’acqua verde che quasi non si muove. Poi l’uomo con gli occhiali ci fa notare che non dovremmo essere lì.