Damiano Caruso, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Damiano Caruso (quindicesima tappa)

di Marco Pastonesi

Domenica 24 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Damiano Caruso (Bmc)

Decimo all’arrivo, settimo in classifica. In una tappa di montagna con arrivo in salita. Eppure è stato, finora, l’unico giorno in cui pensavo di poter fare meglio.

Mi chiamo Damiano come Cunego e Caruso come Giampaolo, sono Damiano Caruso da Ragusa, ho ventisette anni e questo è il settimo da professionista. Dicono che sia un corridore completo. C’è una battuta, nel ciclismo: quando uno dice di essere completo, poi aggiunge, con autoironia, perché vado piano dappertutto. La verità è che vado bene in salita, ma non sono uno scalatore; mi difendo a cronometro, ma non sono un cronoman; sono anche “velocino” in volata, ma non sono uno sprinter; il mio forte sarebbero le corse a tappe, ma m’illudo di potermela giocare anche in quelle di un giorno. Così sono venuto al Giro d’Italia anche per scoprire meglio che tipo di corridore sono, e se ho spostato un po’ più in là i miei limiti.

Se c’è stato un giorno sì, quello della vittoria di Gilbert a Vicenza: non facevo fatica. Se c’è stato un giorno così così, forse i primi, in Liguria. Se c’è stato un giorno no, oggi, ma se fosse questo l’unico giorno no di questo Giro, allora mi andrebbe alla grande. Se mi aspettassi di più, dico di no, perché pensavo di venire al Giro per lottare per un posto tra i primi dieci della classifica, e invece adesso sto lottando per un posto tra i primi cinque. Se c’è una cosa che temo, gli imprevisti, e qui ci può essere un imprevisto dietro ogni curva. Se c’è una cosa che mi dà fiducia, allora ce n’è più di una: io, la squadra, i miei compagni.

Con i compagni è sempre un dare e ricevere. Rick Zabel, per esempio: 21 anni, tedesco, figlio di Erik che nel ciclismo ha vinto tantissimo, un giovane corridore di grandi qualità e prospettive. Oggi, stavano cadendo due gocce d’acqua ed eccolo lì, pronto, a porgermi la mantellina, senza che neanche gliel’avessi chiesta. Rick ha la giusta umiltà per imparare i comandamenti di questo mestiere.

Domani la seconda giornata di riposo. Dormire, riposare, staccare. Poi altre sei tappe, di cui tre durissime. Se mantenere il segreto, io punto a quella di Verbania, che è un po’ più facile e che, forse, almeno per me, sia più felice.

Marostica (Vicenza)-Madonna di Campiglio (Trento) di 165 km

Arrivo: 1) Mikel Landa (Astana) in 4.22’35”, 2) Yury Trofimov (Katusha) a 2”, 3) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo) a 5”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 2’35”, 3) Andrey Amador (Movistar) a 4’19”.

 


Matteo Busato, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Matteo Busato (ventesima tappa)

di Marco Pastonesi

Sestriere (Torino), sabato 30 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Saint-Vincent (Aosta)-Sestriere (Torino) di 199 chilometri

Matteo Busato (Southeast)

Era il tappone del Colle delle Finestre. Solo a pronunciarlo, mette paura. Figurarsi a pedalarlo. Però era anche l’ultimo giorno buono per andare in fuga. Ed era anche il modo migliore per esorcizzare e sconfiggere il timore di quella salita metà asfaltata e metà sterrata. E così sono andato in fuga.

Ero già stato in una fuga buona, quella di Forlì, arrivata al traguardo. Ero stato anche in altre fughe, meno buone perché hanno fatto meno chilometri. Anche questa era a rischio. Speravo che il gruppo le lasciasse prendere più tempo, invece siamo sempre rimasti a tiro. E quando il vantaggio era di un solo minuto, ho preferito proseguire con il mio passo.

Mai fatto prima, il Colle delle Finestre. La prima parte, quella sull’asfalto e nel bosco, è umana. La seconda parte è più dura, la fatica si accumula, le ruote non scorrono. Venivo su con il 39×29. Ma ai meno 3 dalla vetta c’era una marea di gente. E sono riuscito a godermi lo spettacolo. Tutti che urlavano, che incitavano, che partecipavano. Bellissimo.

Però, a pensarci, il Mortirolo è stato più duro. Anche quella era la mia prima volta, in più non stavo bene, avevo già tre salite – Campo Carlo Magno, Tonale e Aprica – nelle gambe, e non c’era neanche tutta quella marea di gente a incitarci.

Sono contento, anzi, felice. Questo mio primo Giro lo finisco migliorando. Da domani sera, quindici giorni tranquillo, poi tornerò ad allenarmi, dormendo in un rifugio al Passo Fedaia, sotto la Marmolada, a 2057 metri di altitudine, a mie spese. Per fare i corridori, adesso, bisogna essere un po’ anche alpinisti.

Arrivo: 1) Fabio Aru (Astana) in 5.12’25” alla media di 38,218 km/h, 2) Ryder Hesjedal (Cannondale-Garmini) a 18”, 3) Rigoberto Uran (Etixx-Quick Step) a 24”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 2’02”, 3) Mikel Landa (Astana) a 3’14”.

 

 


Manuel Bongiorno, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Manuel Bongiorno (diciottesima tappa)

di Marco Pastonesi

Verbania, giovedì 28 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Manuel Bongiorno (Bardiani-Csf)

Signore e signori, Bongiorno. Io, Bongiorno. Francesco (il nome della tradizione: quello del nonno paterno) Manuel (il nome dell’amore: quello voluto dai genitori e con cui tutti mi chiamano) Bongiorno. Oggi: secondo. E quando il primo è il divino Philippe Gilbert, allora il secondo diventa il primo umano. E non si può fingere di essere scontenti o delusi.

Tanto lo sapevo: era una tappa da fuga. Tanto lo volevo: dai e dai, l’ho finalmente centrata. Tanto lo studiava: il Monte Ologno, era lì che dovevo avvantaggiarmi. Tanto lo ottenevo: via in quattro. Tanto ci provavo: allungavo, ma Moinard veniva sempre a stopparmi. Forse avrei potuto tentare sul gran premio della montagna, ma mi sembrava ancora troppo lontano dal traguardo, e c’era ancora un po’ di salita da fare. E tanto, soprattutto, lo temeva: Gilbert. Come è rientrato, così è partito. Come un missile. Abbiamo perso l’attimo. Poi un altro. Poi un altro ancora. E gli attimi sono diventati secondi, e alla fine un minuto. Ma tanto reagivo: solo che Moinard, compagno di Gilbert, frenava, De La Cruz, che voleva vincere, non mi concedeva spazio, Chavanel, a 60 all’ora, ha fatto qualche trenata, però Gilbert ha l’iride sulle maniche, e invece noi le maniche, al massimo, ce le possiamo rimboccare. E tanto m’inventavo: sapendo di essere battuto in volata, mi sono sfilato, Siutsou ha chiuso il buco, siamo rientrati, in quel momento gli altri si sono aperti e io ho tirato diritto. Mancavano due chilometri e mezzo all’arrivo.

Terzo sullo Zoncolan nel Giro 2014 (con spinta – a terra – di uno spettatore poi pentito e disperato), fuggito e poi ripreso quando mancavano quattro chilometri nella tappa di Campitello Matese al Giro 2015, confesso di essere stanco. Così stanco che alla fine delle tappe non riesco neanche ad andare in albergo. Ma non mi arrendo: mancano tre tappe. Nelle due di montagna ritenterò. Chi si rassegna è perduto, anzi, è l’unico che perde.

Si dice che il buongiorno si vede al mattino. Io preferirei vedere il Bongiorno la sera, sul foglio dell’ordine d’arrivo, primo.

Melide (Svizzera)-Verbania di 170 chilometri

Arrivo: 1) Philippe Gilbert (Bmc) in 4.04’14” alla media di 41,763 km/h, 2) Manuel Bongiorno (Bardiani-Csf) a 47”, 3) Sylvain Chavanel (Iam) a 1’01”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Mikel Landa (Astana) a 5’15”, 3) Fabio Aru (Astana) a 6’05”.

 


Giovanni Bernardelle, album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridori postini

Anno 1937

Di Marco Pastonesi

Quella St.Vincent-Courmayeur, Giro d’Italia 1959, con il freddo, la neve, il Gran San Bernardo: “Presi una tale cotta che non riuscivo più ad andare avanti, neanche a spinta”. Quella Fiuggi-Montevergine di Mercogliano, Giro d’Italia 1962, con il suo capitano, Vincenzo Meco in maglia rosa, che non voleva ripartire: “Pensavamo a tutta la fatica fatta e a tutta quella che avremmo dovuto fare per non arrivare fuori tempo massimo”. Quella prima tappa del Giro della Sicilia 1959, con la sua prima e unica vittoria: “Per arrivare prima degli altri, dovevo staccarli tutti, e non era facile”.

Giovanni Bernardelle, classe 1937, vicentino, gregario, racconta. Di quando era bambino: “Pane e ciclismo, tutti appassionati in famiglia, nonni, papà, zio. La prima bici una Legnano color verde oliva, regalo di papà, comprata dallo zio rappresentante della Legnano, che non ci fece sconti, 43 mila lire, una cifra enorme, pagata a rate”. Di quando era ragazzo: “La prima corsa a Vicenza, da esordiente, un centinaio alla partenza, io quarto all’arrivo. La prima vittoria a Vicenza, da allievo, il traguardo dietro il Monte Berico, staccai tutti, arrivai da solo”. Di quando era corridore: “L’ultimo anno da dilettante ne vinsi 15, eppure feci fatica a passare professionista, prendevo 50 mila lire al mese ma per 10 mesi, come se gli altri due si vivesse di aria”.

Un anno alla Torpado, più due all’Atala e altri due alla San Pellegrino, dove aveva Gino Bartali come direttore sportivo. “Era una squadra che partiva senza capitani e gregari, le gerarchie si stabilivano strada facendo”. “Bartali preparava, organizzava, controllava, pretendeva, poi ci aspettava in albergo e tuonava: ‘Tutto sbagliato, tutto da rifare’, e ‘Dovete dare e fare di più’. Dopo la cena ci bastonava, finché cominciava a raccontare di quando spiava Coppi, di quando la bici di acciaio pesava 13-14 chili e di quando limava gli ingranaggi per risparmiare qualche grammo”. “Quella volta che in un albergo di Roma, vicino alla Stazione Termini, ci presentammo in tuta e ciabatte, il direttore di sala s’infuriò e ci mandò via, ‘Tornate in giacca e cravatta’, Bartali venne a cercarci perché nessuno era sceso, la verità è che nessuno di noi aveva la giacca e la cravatta, allora Bartali s’infuriò con il direttore di sala e ci autorizzò a presentarci in tuta e ciabatte”. “Quella volta che, alla vigilia di una corsa a Pistoia, dopo il massaggio e il riposino, andammo tutti al cinema, e quando si riaccese la luce, nella nebbia perché allora al cinema si poteva fumare, c’era Bartali, furente e furioso, che ci urlò ‘Lazzaroni, fuori di qua’”.

Vecchio Bernardelle: “Smesso di correre, con i risparmi comprai casa”. Poi ha sempre diretto il traffico: “Per 28 anni ho fatto il vigile e per 36 il direttore sportivo”. Tutto sbagliato, tutto da rifare? “Bartali non esagerava”.

 


Giacomo Berlato n. 2, album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridore postino

 

Dorsale 132

Di Marco Pastonesi

 

Ama sentire il vento, ha un bisogno - quasi fisico e certamente morale - di prendere l’aria, predilige le compagnie ristrette, anche se poi sostiene che è sempre meglio essere soli che male accompagnati, soprattutto se chi lo accompagna gli sta sempre dietro e intanto gli succhia la ruota come se fosse un lecca-lecca, preferisce correre in testa che nella pancia (del gruppo, s’intende), gli piace sognare e anche illudersi, chissà quanti film ha già girato con un finale a lieto fine che, finora, non si è mai avverato.

Giacomo Berlato è l’uomo delle fughe. Anni 24, gli ultimi due da professionista, dorsale 132, vittorie in carriera 0, fughe neanche a contarne, a ricordarne, a raccontarne, l’ultima ieri, la prima fuga del Giro d’Italia 2016, cominciata in tre (tre uomini a zonzo: lui, l’olandese Tjallingii e lo spagnolo Fraile, quasi dalla partenza) e finita da solo (lui, a 9,8 km dall’arrivo), tanto da meritarsi il titolo di corridore più combattivo della giornata. Vicentino di Malo (“Libera nos a Malo”, Luigi Meneghello), ciclismo di famiglia (Pietro, fratello, corridore fino agli juniores, ed Elena, sorella, professionista), una vita a due ruota. La prima bici addirittura a due anni, Giacomo che va in giro senza rotelle, a due ruote, anche a una sola, impennando. Prima corsa a Nove e prima vittoria. Per la bici e il ciclismo abbandona gli studi da perito elettricista: come se di elettricità gli bastasse quella naturale delle proprie gambe.

Se le tappe si concludessero – a sorpresa - a 10 km dall’arrivo, se si assegnassero – con un verdetto - ai punti e non per k.o., se il criterio del giudizio – a buon rendere – fosse quello del merito e soprattutto del coraggio, Berlato sarebbe vittorioso e vincente. Perché lui va in fuga nelle corse di un giorno e in quelle di tre settimane, nelle tappe piatte e in quelle mosse, nei giorni chilometrici e in quelli altimetrici, quando è bello e quando fa brutto. Capiterà pure il giorno in cui un passaggio a livello si chiuderà poco prima del sopraggiungere del gruppo, una grandinata ostacolerà e frenerà l’inseguimento a effetto aspirapolvere, le squadre dei velocisti non trovino l’accordo o inciampino nell’ora legale o siano confuse dal black-out delle radioline. E quel giorno Berlato, com’è giusto, finalmente – fuga per la vittoria - arriverà all’arrivo.

 


Giacomo Berlato, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Giacomo Berlato (ottava tappa)

di Marco Pastonesi

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Campitello Matese (Campobasso), domenica 17 maggio 2015

Giacomo Berlato (Nippo-Vini Fantini)

Pronti-via, sparpaglio. Tutti che cercano di andare in fuga. Anch’io. Finché quando nasce la fuga buona, ho le gambe dure e pesanti, e poi nessuno mi ha detto che quella è la fuga buona, altrimenti avrei cercato di entrarci anche con le gambe in croce. E così, da quel momento in poi, mi dedico al mio capitano, Damiano Cunego, e ad accompagnarlo incolume ai piedi dell’ultima salita. A quel punto tiro il fiato e risparmio le forze. Domenica 31 maggio voglio arrivare a Milano, in bici, e mancano ancora due settimane.

Mi presento: Giacomo Berlato, da Malo, provincia di Vicenza, e il mio soprannome è “Boldi”, come Massimo Boldi, l’attore, un soprannome che porto con orgoglio. Mio papà è Pietro, metalmeccanico ora pensionato, appassionato di ciclismo, solo che lui andava in giro e non al Giro. Mia mamma è Giovanna, casalinga e – appunto – mamma, sempre presente alle corse, ma a piedi. Mio fratello è Pietro, corridore fino alla categoria juniores. Mia sorella è Elena, professionista nell’Alé-Cipollini. E io.

La prima bici a due anni, nel quartiere dicono che sono un fenomeno, perché non solo vado senza rotelle, ma anche a una ruota sola, impennando. “Quello è spericolato”, sostengono, e questo non facilita la mia libertà a due ruote. Prima corsa a Nove, provincia di Vicenza, e prima vittoria, così nel quartiere dicono che sono proprio un fenomeno. Studi così così, elettricista, ma abbandono. Invece proseguo con la bici. E’ la mia passione, è diventata il mio lavoro. Più felice di così. Infatti, ogni mattina, quando mi alzo, ringrazio Dio. Gli altri si svegliano e vanno a lavorare, io mi sveglio e vado a pedalare, che è molto meglio di lavorare.

Il primo Giro che mi ricordo è quello del 1998: tredicesima tappa, la Carpi-Schio, di 166 chilometri, primo Michele Bartoli, maglia rosa a Andrea Noè, e Marco Pantani che cade due volte in discesa. Avevo sei anni. Adesso che ne ho ventitré e partecipo per la prima volta al Giro, ogni tanto mi devo convincere che non sto sognando ma vedendo, respirando, abitando, insomma vivendo. E’ un’emozione, un’impressione, una sensazione.

Sono un attaccante: non ho paura a stare all’aria, prendere il vento, tirare tutto il giorno. La voglia di scappare è più forte della delusione di farsi raggiungere. Scappare è testa bassa e menare. Scalare è testa bassa e lottare. Vincere, credo, sarà testa bassa e godere, o forse testa alta e godere, comunque godere. Ci proverò finché non ci riuscirò. In questo Giro ci sono tre tappe intorno a casa mia: quella che arriva a Vicenza, quella che parte da Montecchio Maggiore e quella che parte da Marostica. Là ci saranno tutti i miei famigliari e tifosi.

Dimenticavo: sono alto un metro e settanta e peso cinquantanove chili. Quasi gemello del mio capitano Cunego. Se poi riuscissi a vincere, non dico tanto, ma metà, anche un terzo, ma che dico, un quarto di Cunego, sarei veramente quel fenomeno che a Malo insistono, per troppo amore, a considerarmi.

Fiuggi (Frosinone)-Campitello Matese (Campobasso) di 186 km

Arrivo: 1) Benat Intxausti (Movistar) in 4.51’34”, 2) Mikel Landa (Astana) a 20”, 3) Sebastien Reichenbach (Iam) a 31”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 4”, 3) Richie Porte (Sky) a 22”.

 


Manuel Belletti, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Manuel Belletti (dodicesima tappa)

di Marco Pastonesi

Vicenza, giovedì 21 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Manuel Belletti (Southeast)

Imola (Bologna)-Vicenza di 190 km

Pronti, via, partiti a mille, come gli altri giorni, anche peggio. Ma anche il mio ginocchio stava come gli altri giorni, anche peggio. E dopo sessanta chilometri sotto la pioggia, rischiando la pelle, mi sono detto che non ne valesse la pena. A fatica, a malincuore, sono sceso dalla bicicletta e sono salito sull’ammiraglia.

Avevo battuto il ginocchio nella tappa di San Giorgio del Sannio: quando mancavano venti chilometri all’arrivo, mi sono alzato sui pedali, poi ho preso una buca, è caduta la catena, ed è lì che, piombando a peso morto, ho battuto il ginocchio sulla pipa della bici. Ho cercato di curarmi con il ghiaccio e con speciali macchinari, ma il versamento è diventato borsite, la borsite è diventata infiammazione, l’infiammazione è diventata dolore. Mi era già capitato, ma stavolta in maniera diversa e più forte. La prima lastra effettuata alla Clinica mobile non ha evidenziato nulla, ma una successiva ecografia ha riscontrato una piccola frattura sulla punta della rotula. Lo specialista dell’ecografia mi ha detto di sospendere l’attività per trenta giorni, il mio fisioterapista, più ottimista, ha ridotto il periodo a venti giorni, io vorrei essere pronto per la partenza del Giro di Slovenia, il 18 giugno. Intanto, a casa, faccio la magnetoterapia.

E così ho dovuto abbandonare il Giro d’Italia. Questo era il quarto: due li ho conclusi, due no, e il totale delle vittorie rimane fermo a una, nel 2010, però proprio a casa, Cesenatico, anche se io sono di Gatteo a Mare. Stavolta ho collezionato due quarti posti: il primo a Castiglione della Pescaia, il secondo a Fiuggi. Nelle volate, quando non si vince, spesso c’è un piccolo dettaglio sfavorevole: la catena che salta, la fuga che arriva, un avversario che ti chiude alle transenne, un altro che si spegne invece di esplodere. Però, se solo avessi potuto, avrei barattato una mia vittoria con quella del mio amico Alan Marangoni. E’ successo a Forlì. Mi stavo preparando alla volata del gruppo, un possibile quinto posto, quando all’ultimo chilometro, su un maxischermo, ho visto Alan fuggiti dai fuggitivi e lanciato da solo al traguardo. Ero così felice per lui, che mi sono distratto e ho perso ruote e posizioni. Risultato finale: “Maranga” è stato ripreso e io non ho neanche partecipato allo sprint.

Arrivo: 1) Philippe Gilbert (Bmc) in 4.22’50”, 3) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo) a 3”, Diego Ulissi (Lampre-Merida).

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 17”, 3) Mikel Landa (Astana) a 55”.


Marco Bandiera, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Marco Bandiera (quattordicesima tappa)

di Marco Pastonesi

Sabato 23 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Valdobbiadene (Treviso)

Questa è la mia terra. Sono nato a Castelfranco Veneto, abito a Maser, oggi si partiva da Treviso, a 20 chilometri da casa. E la mia è una terra di guerra e ciclismo, che a volte sono la stessa cosa, ed è una terra di lavoro e agricoltura, dunque anche di vini. Tant’è vero che si arrivava a Valdobbiadene.

Sessanta chilometri a cronometro non li avevo mai fatti in vita mia. Ero preoccupato: temevo di scoppiare. E c’era anche la pioggia. La prima parte piatta, quasi noiosa, la seconda mossa, fin troppo. Pronti, via, emozionato, perfino sorpreso. Anche se correvo in casa, la gente mi chiamava Tom. Non capivo. Finché mi sono accorto che la macchina che precede ciascun corridore portava il cartello con il nome di un altro corridore, un belga, credo. E non avevo neanche la macchina per l’assistenza: se avessi forato, sarei rimasto a piedi. Speravo che Oscar Gatto, il mio compagno di squadra partito tre minuti prima di me, mi aspettasse, così avremmo potuto condividere la stessa ammiraglia con le ruote di scorta. Invece lui è stato subito superato da un corridore, l’ha preso come punto di riferimento, e così è riuscito a fare un tempo migliore del mio. Io ho dovuto fare attenzione per l’asfalto viscido, così quell’ora e mezza è passata anche più velocemente di quanto immaginassi, poi ho trovato anche i miei amici e tifosi che m’incoraggiavano, e sono giunto al traguardo. Per la precisione, 168° – su 179 – a 10’29” da Kiryienka. Ma la crono non è la mia specialità.

La mia specialità, qui al Giro, sono i traguardi volanti e le fughe, specialità in cui non si può mai issare… bandiera bianca. In tutt’e due le classifiche sono al secondo posto. Se centro una fuga buona, magari nella tappa di Lugano o in quella di Verbania, potrei anche guadagnarmi il primo posto. Non è una questione di soldi o premi, ma soprattutto di soddisfazione e passione. Un anno fa ero salito sul podio di Milano, proprio per la classifica dei traguardi volanti. E mi erano venuti i brividi.

Treviso-Valdobbiadene (Treviso) di 59,4 km

 


LIBRI nel GIRO. BCI chiama Pace. Le storie: Coenelis Blekemolen. Il 31 luglio 1914 s’inaugurarono i Mondiali di ciclismo su pista, a Copenaghen, in Danimarca. Ma più che aria di sport, tirava vento di guerra. Tre giorni prima l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia, il giorno prima la Russia aveva annunciato la mobilitazione generale, e quello stesso giorno la Germania aveva inviato l’ultimatum alla Russia. Eppure la speranza per una risoluzione pacifica viveva ancora. La prima gara dei Mondiali di ciclismo era quella del mezzofondo dilettanti: fu vinta da un olandese, Cornelis Blekemolen. La seconda gara in programma era quella della velocità: ma non ci fu neppure il tempo per disputarla. Lo “starter” stava per dare il via alla prima batteria della competizione, quando venne fermato dallo “speaker”, che con il megafono annunciò la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. La fine dell’inizio (dei Mondiali) e l’inizio della fine (del mondo). La manifestazione fu sospesa, le altre gare cancellate. I corridori, da guerieri in pista, diventarono soldati in trincea. Blekemolen, “Cor” ma anche “Blekie”, era nato ad Amsterdam il 7 febbraio 1894. Figlio di un macellaio, si era innamorato delle due ruote lavorando in un negozio di biciclette come fattorino e fu introdotto nel mondo ciclismo grazie a conoscenze con corridori dell’epoca. Fece la sua gavetta: le prime corse a 15 anni, il primo piazzamento a 18, terzo nel campionato olandese su strada, la prima medaglia a 19, bronzo ai Mondiali di Lipsia nel mezzofondo, preludio dell’oro l’anno dopo a Copenaghen. Blekemolen tornò a correre dopo la Grande Guerra: divenne popolarissimo, lo chiamavano – succedeva sempre così, quando uno dei Paesi Bassi finiva in alto - “l’Olandese Volante”, ma lui era speciale, parlava sei lingue e fumava sigari. Sposò una cantante di operetta, frequentava sale teatrali e set cinematografici, e durante la Seconda guerra mondiale organizzava riunioni di ciclismo in teatri, dove i corridori si affrontavano in biciclette sui rulli. Continuò a dividersi fra ciclismo e spettacolo: allenatore in pista e manager a Utrecht, ma anche direttore del Churchill Theatre di Hilversum. Blekemolen morì il 28 novembre 1972, a Hilversum. Fu il suo ultimo volo.

Giro d'Italia 2010
Giro d'Italia 2010

LIbri nel Giro. Bici chiama Pace. Le storie: Eugène Christophe. Accadde nel 1913, l’ultimo prima della Grande Guerra. Eugène Christophe aveva 28 anni, era parigino di periferia, portava baffi imponenti ed era soprannominato “Le Vieux Gaulois”, il vecchio gallo, nel senso del popolo. Di quel Tour era il favorito numero 1. La sesta tappa era quella regina: si correva da Bayonne a Luchon, si scalavano Aubisque, Gourette, Soulor, Tourmalet, Aspin e Peyresourde. Su strade disastrate. Christophe era al comando della corsa quando a metà discesa, come avrebbe poi raccontato lui stesso, “a una decina di chilometri da Sainte-Marie-de-Campan, all’improvviso sentii che qualcosa non funzionava con il manubrio. Tirai i freni e mi fermai. Vidi che la forcella era rotta. Adesso posso dire che la mia forcella era rotta, ma in quel momento non avrei potuto dirlo perché era una cattiva pubblicità per la casa per cui correvo. Così stavo là, solo sulla strada. Quando dico strada, dovrei dire sentiero. Pensai che forse uno dei quei sentieri ripidi mi avrebbero portato direttamente a Saint-Marie-de-Campan. Ma piangevo così forte che non riuscivo a vedere niente. Con la bici in spalla, mi feci tutti quei 10 chilometri. Arrivato al villaggio, incontrai una giovane donna che mi condusse dal fabbro, dall’altra parte del villaggio. Si chiamava Monsieur Lecomte. Era gentile e mi voleva aiutare, ma non era autorizzato a farlo. Le regole erano rigorose. Dovevo fare tutte le riparazioni da solo. Non ho mai passato ore più complicate in vita mia di quelle, crudeli, nell’officina di Monsieur Lecomte”. S’impietosì perfino un bambino. Mentre Christophe era impegnato con martello e forcella, il bambino gonfiava le gomme. Risultato: un giudice appioppò a Christophe 10 minuti di ritardo in classifica, poi ridotti a tre. Ininfluenti. Perché l’operazione meccanica richiese più o meno quattro ore, e Christophe giunse a Luchon alle 20.44, 29°, comunque prima di altri 15 corridori. E fu infine settimo a Parigi.

Giro d'Italia 2016
Giro d'Italia 2016