Marchigiano, c’era anche lui nella tappa più dura del Giro di 50 anni fa: “Fui caricato su una macchina, portato in un albergo e immerso in una vasca piena di acqua calda. Ma a novembre avevo ancora le punte delle dita che mi pizzicavano”

di MARCO PASTONESI 

ROMA – Cinquant’anni fa c’era anche lui su una bici, con il dorsale, al pronti-via da Campione d’Italia e poi all’arrivo a Napoli, per 3917 chilometri, in tv e sui giornali: Mario Mancini, della Kelvinator, sessantunesimo nella classifica finale, con un ritardo di due ore, 25 minuti e 21 secondi dal primo, Eddy Merckx, ma con un vantaggio di un’ora, 18 minuti e 37 secondi sul novantesimo e ultimo, Giuseppe Poli.

Chilometro zero: “Marchigiano di Potenza Picena. Famiglia contadina. Mio padre era un coltivatore diretto. Si faceva un po’ di tutto, innanzitutto per la famiglia, e se avanzava qualcosa, si vendeva. Nato il 25 dicembre del ’43: una fregatura doppia, la prima perché successe sotto i bombardamenti, fra casa e rifugi antiaerei, la seconda perché i regali di Natale erano anche quelli del compleanno, e quelli del compleanno erano anche quelli di Natale. Una sorella, due fratelli, io il terzo dei quattro. In seconda media ho smesso di studiare e cominciato a lavorare, meccanico”.

Traguardo volante: “In casa si respirava ciclismo, mio padre correva, era bartaliano, e quando c’era il Giro d’Italia mi mandava ogni mattina a comperare ‘Stadio’, l’edicola stava a un chilometro, avevo cinque o sei anni, andavo e tornavo a piedi. La prima bici era quella della mamma, una bici da donna, 15 chili, con quella andai a vedere il Giro d’Italia, sull’Adriatica, discesa al’andata ma salita al ritorno, avevo 8-9 anni, i miei amici 4-5 più di me, poi ero così stanco che passai due giorni a letto con la febbre. La prima bici, mia, a 13 anni, arrangiata, un pezzo qua e un pezzo là. La mia prima corsa da esordiente, a 15 anni, su una bici della società, io ero piccolino e la bici, anche se con la sella bassa, era comunque alta, finché alla fine della stagione ne ereditai un’altra da un dilettante, e con quella volavo”.

Fuga: “Da dilettante correvo in Toscana, nel 1966 diventai campione toscano, vinsi anche il Giro del Casentino e la Firenze-Viareggio, fui convocato in azzurro per la Praga-Versavia-Berlino ma la squadra non mi lasciò andare. Il passaggio al professionismo fu supermeritato. Ma il primo anno, alla Germanvox, non ingranai la marcia. Invece il secondo, alla Kelvinator, andò meglio. Al Giro ero con Lievore, Benfatto, Negro… In un filmato delle Tre Cime di Lavaredo mi sono riconosciuto, dietro una moto della polizia, sotto la neve, congelato, dopo la tappa fui caricato su una macchina, portato in un albergo a Cortina d’Ampezzo e immerso in una vasca piena di acqua calda, eppure cinque mesi dopo, a novembre, avevo ancora le punte delle dita che mi pizzicavano”.

Controfuga: “Dopo il Giro d’Italia vinsi un circuito, a Figline Valdarno, in notturna. Fu un errore: non avrei dovuto vincere, quella vittoria mi costò caro, c’era anche Mealli che era l’idolo locale, così non venni più invitato ai circuiti, e i circuiti prevedevano guadagni. Però quell’errore mi servì per non commetterne altri nella vita normale”.

Traguardo: “Smisi di correre alla fine del 1968 anche se le due ultime corse andai forte, quattordicesimo alla Coppa Agostoni, con tutti i migliori, e diciottesimo al Giro di Lombardia, ottavo degli italiani. Il ’68 lo avevamo vissuto di lato, noi pensavamo di più a correre in bicicletta. Andai a lavorare, prima in un frutta & verdura, poi in una fabbrichetta di plastica. Nel tempo libero continuai a pedalare e a gareggiare, e finalmente imparai anche a correre: fino a quel momento non sapevo limare le ruote, così non riuscivo a stare in gruppo, prendevo sempre un sacco di aria e vento. E adesso, da nonno, con cinque nipotini, tutti maschi, in bici ci vado ancora”.