Giacomo Denti, album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridore postino

Anno 1945

Di Marco Pastonesi

La sua prima bicicletta – una Olimpia Garibaldina, cromata - aveva dieci padroni. Chi le aveva dato il telaio, chi la forcella, chi i pedali e le ruote. Il più famoso dei proprietari era Sergio Alzani, che sarebbe diventato professionista, nella Gazzola, 1963 e 1964, senza vittorie: a quella bicicletta aveva regalato i tubolari. E su quella bicicletta Giacomino Denti, detto Mino, di Soncino, aveva deciso che avrebbe fatto anche lui il corridore. Finché, tesserato dalla C.C.Cremonese e ricevuta una bici personale dalla società, restituì quella in multiproprietà per permettere a un altro ragazzo di tentare la fortuna a due ruote.

La prima corsa a Cinisello Balsamo, “una cinquantina in volata, io terzo, senza paura, e il sospetto che mi sarebbero sempre mancate le prime tre o quattro pedalate di potenza”. La prima vittoria a Persichello di Cremona, “sotto la pioggia, una fuga a cinque o sei, l’arrivo da solo, e la certezza che soltanto la solitudine mi avrebbe sempre garantito il primo posto”. La vittoria più bella nella cronosquadre – la 4x100 km Dalla Bona-Denti-Guerra-Soldi – ai Mondiali dilettanti 1965, “un quartetto di motociclette, avremmo vinto anche l’anno dopo se non avessimo montato gomme speciali che sull’acqua ci hanno tradito, cinque cadute e un abbandono”. La vittoria più difficile al Tour de l’Avenir 1966, “quattordici tappe con Alpi e Pirenei, e i francesi che s’incazzavano”. La vittoria più vittoriosa al Giro del Veneto 1969, media record per 16 anni, sfrecciando in volata davanti a Dancelli, Polidori, Panizza, Boifava e Aldo Moser. Finché al Giro d’Italia 1970, “la settima tappa, la Zingonia-Malcesine, giù dal Crocedomini, verso la Val Sabbia, tre chilometri prima di Bagolino, la strada stretta, le macchine parcheggiate, la ghiaia invisibile, uno spagnolo, il numero 81, che cade, e io, per evitarlo, che frano”. Dodici metri di salto. Diciotto fratture. Fine della carriera.

Mino, ce l’ha nel cognome, stringe i denti e ricomincia a vivere. Con la mamma e due sorelle sarte, abbigliamento sportivo, anzi, ciclistico. Poi, dal 1980, con la moglie e il figlio, fabbrica anche biciclette, su misura, dai giovanissimi ai professionisti. E così, se prima a vincere era lui, Mino, adesso, a vincere, è Denti, la sua bici.

“Il ciclismo mi ha educato alla disciplina, alle regole, alla vita. Non c’è mai stato un solo giorno in cui abbia detto che ‘non ho voglia di lavorare’. Così come non c’è mai stato un solo giorno in cui non abbia ringraziato tutto quel pedalare e girare, quel conoscere e vedere”. Istanti, incontri, anche incantesimi. “Passaggio a livello. Jacques Anquetil perde una borraccia. Io, che ne ho due, gliene do una. Lui la prende e beve, a gocce, come un uccellino. E fino alla fine di quel Giro d’Italia, ogni volta che mi vede, mi dice grazie. Lui, Anquetil, il più elegante, il più signore, il più grande di tutti”.

Marco Pastonesi

 

 


Valerio Conti , album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridore postino

Dorsale 101

Di Marco Pastonesi

Noè era del 1933, Franco è del 1951, Valerio del 1993. Noè è stato professionista dal 1958 al 1962, Franco dal 1977 al 1984, Valerio lo è dal 2014. Noè era passista, Franco completo, Valerio ancora non si sa. Noè ne ha vinte due, una tappa del Giro dei Due Mari (un antenato della Tirreno-Adriatico) nel 1958 e la Coppa Bernocchi nel 1959, Franco nessuna da professionista ma il Giro d’Italia da dilettante, Valerio il Gran premio Beghelli nel 2014 e una tappa del Tour of Japan nel 2015. Noè ha fatto il gregario a Fausto Coppi, Franco a Moreno Argentin e Pierino Gavazzi, Valerio a Diego Ulissi. E se non ci fosse stato Valerio, dorsale 101, ieri Ulissi, dorsale 100, non sarebbe riuscito a vincere. Avamposto quando sono scattati De Marchi e Pirazzi, poi treno – da solo – quando è arrivato il suo capitano, spingere mulinare lanciare guadagnare, a testa bassa, a denti stretti, a cuore in gola, fino ai piedi della rampa al 18 per cento, un pugnale affilatissimo, il trampolino per la vittoria.

Facciamo due conti, anzi, facciamo tre Conti. Noè e Franco fratelli, Valerio figlio di Franco, anche se è stato Noè a regalare la prima bicicletta a Valerio, il resto ce l’aveva dentro, come un’impronta, un’eredità, un destino, anche una religione o una malattia. Ciclismo: quel fuoco che a Noè e Franco era divampato quando stavano ancora a Montefalco, in Umbria, quell’incendio che è scoppiato quando si sono trasferiti a Roma, al Colle Prenestino, e dove Valerio è nato e cresciuto, prima di frequentare l’accademia del ciclismo a Mastromarco.

Un giorno Valerio potrà raccontare di quei chilometri calabresi a tutta, a tuttissima, alla morte, a crono, in apnea, così come Noè gli raccontava di quando, nel Giro di Campania del 1958, prima tirava, poi spingeva Coppi sulle rampe dell’Agerola. E il bello è che Valerio potrà raccontare di quel commovente abbraccio con Ulissi, che lo aspettava e lo cercava e lo voleva per ringraziarlo, così come Noè gli raccontava di come Coppi a ogni spinta si voltava e gli dicesse grazie.

Perché alla fine, nel ciclismo, i conti – e anche i Conti – tornano sempre.


Daniele Colli, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Daniele Colli (seconda tappa)

di Marco Pastonesi

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Genova, domenica 10 maggio 2015

Daniele Colli (Nippo-Vini Fantini)

Quando in pullman siamo entrati in Albenga, per prepararci alla partenza, ho avuto, all’improvviso, un flash-back: io, soldato, al Centro addestramento reclute, nel 2002. Per il servizio militare. Le strade del ciclismo vanno e vengono, vanno e tornano, vanno e danno, vanno e cercano, vanno e trovano, vanno e ritrovano. Al Car di Albenga rimasi un mese, poi il trasferimento a Roma, nella Compagnia atleti. Oggi, ad Albenga, ci siamo rimasti un paio d’ore: la riunione tecnica, la firma del foglio di partenza, il pronti-via. Via alla prima vera tappa del mio secondo Giro d’Italia.

Tanta gente e tanto caldo, una giornata d’estate, perfino la gente – e confesso che ho ceduto all’invidia – che stava sulla spiaggia a fare il bagno. Poi la corsa. A 50 chilometri dal traguardo, la Tinkoff-Saxo di Alberto Contador ha preso in mano la gara, e allora si è capito che sarebbe finita con una volata. Finale difficile, circuito cittadino, ultimi seicento metri in salita. Sono arrivato nono. E sono contento.

Mi ricordo che, da piccolo, andavo con mio papà a vedere il Giro d’Italia. Le tappe in salita, cercando di riconoscere Indurain e Chiappucci, e la tappa di Milano, quella finale, che finiva sempre in volata. “Un giorno – gli dicevo – voglio essere come loro”. Avevo una mountain bike. Arrivavamo sempre con un grande anticipo, si stava ore sulla strada, prima c’era la carovana, poi arrivavano i corridori, ma quelli passavano in un attimo. Eppure l’attesa non mi pesava. Anzi, aveva il suo bello.

Adesso, da corridore, mi sembra che non ci sia mai tempo. Tra il prepararsi, il trasferirsi, il correre, poi il tornare in albergo, la merenda, il massaggio, la cena, e non vedi l’ora di andare a dormire. In valigia ho messo solo le casse dello stereo per sentire bene la musica: mi rilassa. Invece niente libri: quelli m’impegnano. L’unico impegno dev’essere il Giro: aiutare i compagni quando ne hanno bisogno, non tradire la loro fiducia quando sono loro ad aiutare me. Giorno dopo giorno, tappa dopo tappa. E va a finire che molte tappe sembrino uguali, un copia-e-incolla. Tranne il giorno di riposo, in cui il tempo vola.

Ma questa era la vita che volevo fare da piccolo quando andavo a vedere il Giro. E me la godo.

2° tappa, Albenga-Genova, 177 chilometri

Arrivo: 1) Elia Viviani (Sky) in 4.13’18”, 2) Moreno Hofland (Lotto-Jumbo), 3) André Greipel (Lotto-Soudal).

Classifica: 1) Michael Matthews (Orica GreenEdge), 2) Simon Gerrans (Orica GreenEdge), 3) Simon Clarke (Orica GreenEdge).

 


Giulio Ciccone, album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridore postino

Dorsale 26

Di Marco Pastonesi

“Il geco di Abruzzo” ha 21 anni, è piuttosto alto (1,76) e piuttosto smilzo (58), mostra occhi svegli e naso aerodinamico, indossa il dorsale 26 e la maglia verde Bardiani-Csf, e scatta quando la strada tira. Per questo lo chiamano “il geco di Abruzzo”: ama le salite ed è uno scalatore. Ed è per questo che soltanto adesso, per “il geco di Abruzzo”, comincia il bello.

Giulio Ciccone – è lui “il geco di Abruzzo” – è nato in cima a una salita della contrada Mulino, del paese Brecciarola, del comune di Chieti. E non può essere un caso. E non può essere un caso neppure che sulla prima bicicletta, una 24, rossa, non arrivasse alla sella e che sulla prima da corsa, una 28, non arrivasse ai pedali: erano salite anche quelle. Prima idea a sette anni, prima corsa a otto, a Manoppello, “ed è un miracolo se non ci ho lasciato la pelle, perché c’era stata una caduta e io, per evitarla, mi sono infilato tra il muro e un palo”. Da qui le prime raccomandazioni, quella della mamma, “va’ piano”, e quella del papà, “va bene”, che significava tutto ma anche niente, comunque il diritto di provarci, almeno a divertirsi.

Giulio ci ha provato e, se è qua al Giro, è anche perché si sta divertendo: “Per il ciclismo ho accantonato il gioco del calcio, i brividi del gokart e il diploma di geometra, anche perché da piccolo avrei voluto diventare un corridore e da grande vorrei rimanere in questo mondo. Per il ciclismo ho girato l’Italia, due volte vincitore dei gran premi della montagna al Valle d’Aosta, e un po’ anche l’Europa, secondo a un Tour de l’Avenir. Per il ciclismo smonto e rimonto la bicicletta, prima per il gusto di scoprirla, poi di conoscerla, studiarla e capirla”. E alla bici si dedica: “E’ tutto, è tutto quello che fai e dai, certe volte me la porto in camera per dormirci insieme, certe volte le parlo, come se potesse sentirmi e rispondermi, certe volte addirittura la prego e la ringrazio”. Lui che si ispirava a Marco Pantani: “Le salite, gli attacchi, la solitudine”. Lui che in cima alle salite rischia di sfiorare la felicità: “E se non è felicità, almeno è soddisfazione”.

E allora, la salita più lunga? “La Maddalena, fatta in corsa, e lo Stelvio, in allenamento”. La più dura? “Il muro di Guardiagrele, nelle Marche, alla Tirreno-Adriatico, breve ma con una rampa che, a occhio, anzi, a pedale, sarà del 25 per cento”. La più… dolomitica? “Sella e Pordoi, finora mai pedalate, ma aspetto questo Giro”. La più famigliare? “Il Blockhaus”. Ma la salita, perché? “Per conoscersi, approfondirsi, controllarsi”. Se no, che “geco di Abruzzo” sarebbe?

 


Luca Chirichi, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Luca Chirico (terza tappa)

di Marco Pastonesi

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Sestri Levante (Genova), lunedì 11 maggio 2015

Luca Chirico

Primo Giro, questo, e prima fuga, oggi. Tappa dura, altimetria mossa, andatura sostenuta, fatica assicurata: tutto quello che piace a me. Pronti, via, fuga: sei o sette, e ci sono dentro anch’io. Poi alla radio mi comunicano che sta rientrando un mio compagno, Edoardo Zardini, lo aspetto, ma non è solo, con lui ci sono anche – per dirne due – Gilbert e Boonen, che sono stati campioni del mondo. Mi metto a disposizione di Zardini: siccome punta ai gran premi della montagna, io tiro per venti chilometri, in salita, finché lui mi confida che non sta bene e finché non mi dice “basta”. Allora stacco, mi risparmio, e al traguardo arrivo a 14 minuti dal vincitore, però in buona compagnia: c’è Chavanel, c’è Petacchi, c’è Viviani, che ha vinto il giorno prima, c’è anche Lobato, che è uno spagnolo emergente.

Faccio parte di una squadra di attaccanti: se fossimo calciatori, sarebbe la squadra di Zeman. La prima vittoria è proprio quella di centrare la fuga buona. Spesso rimane l’unica vittoria della giornata. Ma le soddisfazioni ci sono comunque: la gente che urla, che incoraggia, che applaude. Tutte scene che prima vedevo alla tv, e adesso dal vivo sulle strade, e poi la sera in tv, con la differenza che nelle immagini ci sono anch’io. E l’effetto è particolare. E la sera, da casa, al telefono, mi hanno festeggiato come se avessi vinto.

Avevo otto anni quando, alla tv, guardavo Pantani vincere due tappe al Tour. Senza Pantani, il ciclismo non mi sembrò più così entusiasmante. Avevo dodici anni quando, sempre alla tv, guardavo Cunego conquistare il Giro d’Italia. E fu in quei giorni che decisi di salire in sella. La prima bici era stata fatta da un artigiano varesino, era marchiata Cycling One, e adesso l’ha ereditata Ilaria, la mia ragazza. La prima corsa l’ho disputata il primo anno da allievo, a quattordici anni, in Svizzera, correvo per il Velo Club Lugano. La prima vittoria, il secondo anno da allievo, a quindici anni, a Vertemate con Minoprio. Arrivai da solo: l’unica maniera per essere certo di poter vincere.

Sarà che mi sono diplomato perito aeronautico, ma io, sulla bici, sogno sempre di volare.

Arrivo: 1) Michael Matthews (Orica-GreenEdge) in 3.33’53”, 2) Fabio Felline (Trek), 3) Philippe Gilbert (Bmc).

Classifica: 1) Michael Matthews (Orica-GreenEdge), 2) Simon Clarke (Orica-GreenEdge) a 6”, 3) Simon Gerrans (Orica-GreenEdge) a 10”.

 


Damiano Caruso, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Damiano Caruso (quindicesima tappa)

di Marco Pastonesi

Domenica 24 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Damiano Caruso (Bmc)

Decimo all’arrivo, settimo in classifica. In una tappa di montagna con arrivo in salita. Eppure è stato, finora, l’unico giorno in cui pensavo di poter fare meglio.

Mi chiamo Damiano come Cunego e Caruso come Giampaolo, sono Damiano Caruso da Ragusa, ho ventisette anni e questo è il settimo da professionista. Dicono che sia un corridore completo. C’è una battuta, nel ciclismo: quando uno dice di essere completo, poi aggiunge, con autoironia, perché vado piano dappertutto. La verità è che vado bene in salita, ma non sono uno scalatore; mi difendo a cronometro, ma non sono un cronoman; sono anche “velocino” in volata, ma non sono uno sprinter; il mio forte sarebbero le corse a tappe, ma m’illudo di potermela giocare anche in quelle di un giorno. Così sono venuto al Giro d’Italia anche per scoprire meglio che tipo di corridore sono, e se ho spostato un po’ più in là i miei limiti.

Se c’è stato un giorno sì, quello della vittoria di Gilbert a Vicenza: non facevo fatica. Se c’è stato un giorno così così, forse i primi, in Liguria. Se c’è stato un giorno no, oggi, ma se fosse questo l’unico giorno no di questo Giro, allora mi andrebbe alla grande. Se mi aspettassi di più, dico di no, perché pensavo di venire al Giro per lottare per un posto tra i primi dieci della classifica, e invece adesso sto lottando per un posto tra i primi cinque. Se c’è una cosa che temo, gli imprevisti, e qui ci può essere un imprevisto dietro ogni curva. Se c’è una cosa che mi dà fiducia, allora ce n’è più di una: io, la squadra, i miei compagni.

Con i compagni è sempre un dare e ricevere. Rick Zabel, per esempio: 21 anni, tedesco, figlio di Erik che nel ciclismo ha vinto tantissimo, un giovane corridore di grandi qualità e prospettive. Oggi, stavano cadendo due gocce d’acqua ed eccolo lì, pronto, a porgermi la mantellina, senza che neanche gliel’avessi chiesta. Rick ha la giusta umiltà per imparare i comandamenti di questo mestiere.

Domani la seconda giornata di riposo. Dormire, riposare, staccare. Poi altre sei tappe, di cui tre durissime. Se mantenere il segreto, io punto a quella di Verbania, che è un po’ più facile e che, forse, almeno per me, sia più felice.

Marostica (Vicenza)-Madonna di Campiglio (Trento) di 165 km

Arrivo: 1) Mikel Landa (Astana) in 4.22’35”, 2) Yury Trofimov (Katusha) a 2”, 3) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo) a 5”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 2’35”, 3) Andrey Amador (Movistar) a 4’19”.

 


Matteo Busato, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Matteo Busato (ventesima tappa)

di Marco Pastonesi

Sestriere (Torino), sabato 30 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Saint-Vincent (Aosta)-Sestriere (Torino) di 199 chilometri

Matteo Busato (Southeast)

Era il tappone del Colle delle Finestre. Solo a pronunciarlo, mette paura. Figurarsi a pedalarlo. Però era anche l’ultimo giorno buono per andare in fuga. Ed era anche il modo migliore per esorcizzare e sconfiggere il timore di quella salita metà asfaltata e metà sterrata. E così sono andato in fuga.

Ero già stato in una fuga buona, quella di Forlì, arrivata al traguardo. Ero stato anche in altre fughe, meno buone perché hanno fatto meno chilometri. Anche questa era a rischio. Speravo che il gruppo le lasciasse prendere più tempo, invece siamo sempre rimasti a tiro. E quando il vantaggio era di un solo minuto, ho preferito proseguire con il mio passo.

Mai fatto prima, il Colle delle Finestre. La prima parte, quella sull’asfalto e nel bosco, è umana. La seconda parte è più dura, la fatica si accumula, le ruote non scorrono. Venivo su con il 39×29. Ma ai meno 3 dalla vetta c’era una marea di gente. E sono riuscito a godermi lo spettacolo. Tutti che urlavano, che incitavano, che partecipavano. Bellissimo.

Però, a pensarci, il Mortirolo è stato più duro. Anche quella era la mia prima volta, in più non stavo bene, avevo già tre salite – Campo Carlo Magno, Tonale e Aprica – nelle gambe, e non c’era neanche tutta quella marea di gente a incitarci.

Sono contento, anzi, felice. Questo mio primo Giro lo finisco migliorando. Da domani sera, quindici giorni tranquillo, poi tornerò ad allenarmi, dormendo in un rifugio al Passo Fedaia, sotto la Marmolada, a 2057 metri di altitudine, a mie spese. Per fare i corridori, adesso, bisogna essere un po’ anche alpinisti.

Arrivo: 1) Fabio Aru (Astana) in 5.12’25” alla media di 38,218 km/h, 2) Ryder Hesjedal (Cannondale-Garmini) a 18”, 3) Rigoberto Uran (Etixx-Quick Step) a 24”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 2’02”, 3) Mikel Landa (Astana) a 3’14”.

 

 


Manuel Bongiorno, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Manuel Bongiorno (diciottesima tappa)

di Marco Pastonesi

Verbania, giovedì 28 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Manuel Bongiorno (Bardiani-Csf)

Signore e signori, Bongiorno. Io, Bongiorno. Francesco (il nome della tradizione: quello del nonno paterno) Manuel (il nome dell’amore: quello voluto dai genitori e con cui tutti mi chiamano) Bongiorno. Oggi: secondo. E quando il primo è il divino Philippe Gilbert, allora il secondo diventa il primo umano. E non si può fingere di essere scontenti o delusi.

Tanto lo sapevo: era una tappa da fuga. Tanto lo volevo: dai e dai, l’ho finalmente centrata. Tanto lo studiava: il Monte Ologno, era lì che dovevo avvantaggiarmi. Tanto lo ottenevo: via in quattro. Tanto ci provavo: allungavo, ma Moinard veniva sempre a stopparmi. Forse avrei potuto tentare sul gran premio della montagna, ma mi sembrava ancora troppo lontano dal traguardo, e c’era ancora un po’ di salita da fare. E tanto, soprattutto, lo temeva: Gilbert. Come è rientrato, così è partito. Come un missile. Abbiamo perso l’attimo. Poi un altro. Poi un altro ancora. E gli attimi sono diventati secondi, e alla fine un minuto. Ma tanto reagivo: solo che Moinard, compagno di Gilbert, frenava, De La Cruz, che voleva vincere, non mi concedeva spazio, Chavanel, a 60 all’ora, ha fatto qualche trenata, però Gilbert ha l’iride sulle maniche, e invece noi le maniche, al massimo, ce le possiamo rimboccare. E tanto m’inventavo: sapendo di essere battuto in volata, mi sono sfilato, Siutsou ha chiuso il buco, siamo rientrati, in quel momento gli altri si sono aperti e io ho tirato diritto. Mancavano due chilometri e mezzo all’arrivo.

Terzo sullo Zoncolan nel Giro 2014 (con spinta – a terra – di uno spettatore poi pentito e disperato), fuggito e poi ripreso quando mancavano quattro chilometri nella tappa di Campitello Matese al Giro 2015, confesso di essere stanco. Così stanco che alla fine delle tappe non riesco neanche ad andare in albergo. Ma non mi arrendo: mancano tre tappe. Nelle due di montagna ritenterò. Chi si rassegna è perduto, anzi, è l’unico che perde.

Si dice che il buongiorno si vede al mattino. Io preferirei vedere il Bongiorno la sera, sul foglio dell’ordine d’arrivo, primo.

Melide (Svizzera)-Verbania di 170 chilometri

Arrivo: 1) Philippe Gilbert (Bmc) in 4.04’14” alla media di 41,763 km/h, 2) Manuel Bongiorno (Bardiani-Csf) a 47”, 3) Sylvain Chavanel (Iam) a 1’01”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Mikel Landa (Astana) a 5’15”, 3) Fabio Aru (Astana) a 6’05”.

 


Giovanni Bernardelle, album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridori postini

Anno 1937

Di Marco Pastonesi

Quella St.Vincent-Courmayeur, Giro d’Italia 1959, con il freddo, la neve, il Gran San Bernardo: “Presi una tale cotta che non riuscivo più ad andare avanti, neanche a spinta”. Quella Fiuggi-Montevergine di Mercogliano, Giro d’Italia 1962, con il suo capitano, Vincenzo Meco in maglia rosa, che non voleva ripartire: “Pensavamo a tutta la fatica fatta e a tutta quella che avremmo dovuto fare per non arrivare fuori tempo massimo”. Quella prima tappa del Giro della Sicilia 1959, con la sua prima e unica vittoria: “Per arrivare prima degli altri, dovevo staccarli tutti, e non era facile”.

Giovanni Bernardelle, classe 1937, vicentino, gregario, racconta. Di quando era bambino: “Pane e ciclismo, tutti appassionati in famiglia, nonni, papà, zio. La prima bici una Legnano color verde oliva, regalo di papà, comprata dallo zio rappresentante della Legnano, che non ci fece sconti, 43 mila lire, una cifra enorme, pagata a rate”. Di quando era ragazzo: “La prima corsa a Vicenza, da esordiente, un centinaio alla partenza, io quarto all’arrivo. La prima vittoria a Vicenza, da allievo, il traguardo dietro il Monte Berico, staccai tutti, arrivai da solo”. Di quando era corridore: “L’ultimo anno da dilettante ne vinsi 15, eppure feci fatica a passare professionista, prendevo 50 mila lire al mese ma per 10 mesi, come se gli altri due si vivesse di aria”.

Un anno alla Torpado, più due all’Atala e altri due alla San Pellegrino, dove aveva Gino Bartali come direttore sportivo. “Era una squadra che partiva senza capitani e gregari, le gerarchie si stabilivano strada facendo”. “Bartali preparava, organizzava, controllava, pretendeva, poi ci aspettava in albergo e tuonava: ‘Tutto sbagliato, tutto da rifare’, e ‘Dovete dare e fare di più’. Dopo la cena ci bastonava, finché cominciava a raccontare di quando spiava Coppi, di quando la bici di acciaio pesava 13-14 chili e di quando limava gli ingranaggi per risparmiare qualche grammo”. “Quella volta che in un albergo di Roma, vicino alla Stazione Termini, ci presentammo in tuta e ciabatte, il direttore di sala s’infuriò e ci mandò via, ‘Tornate in giacca e cravatta’, Bartali venne a cercarci perché nessuno era sceso, la verità è che nessuno di noi aveva la giacca e la cravatta, allora Bartali s’infuriò con il direttore di sala e ci autorizzò a presentarci in tuta e ciabatte”. “Quella volta che, alla vigilia di una corsa a Pistoia, dopo il massaggio e il riposino, andammo tutti al cinema, e quando si riaccese la luce, nella nebbia perché allora al cinema si poteva fumare, c’era Bartali, furente e furioso, che ci urlò ‘Lazzaroni, fuori di qua’”.

Vecchio Bernardelle: “Smesso di correre, con i risparmi comprai casa”. Poi ha sempre diretto il traffico: “Per 28 anni ho fatto il vigile e per 36 il direttore sportivo”. Tutto sbagliato, tutto da rifare? “Bartali non esagerava”.

 


Giacomo Berlato n. 2, album di figurine

Libri nel Giro 2016. Corridore postino

 

Dorsale 132

Di Marco Pastonesi

 

Ama sentire il vento, ha un bisogno - quasi fisico e certamente morale - di prendere l’aria, predilige le compagnie ristrette, anche se poi sostiene che è sempre meglio essere soli che male accompagnati, soprattutto se chi lo accompagna gli sta sempre dietro e intanto gli succhia la ruota come se fosse un lecca-lecca, preferisce correre in testa che nella pancia (del gruppo, s’intende), gli piace sognare e anche illudersi, chissà quanti film ha già girato con un finale a lieto fine che, finora, non si è mai avverato.

Giacomo Berlato è l’uomo delle fughe. Anni 24, gli ultimi due da professionista, dorsale 132, vittorie in carriera 0, fughe neanche a contarne, a ricordarne, a raccontarne, l’ultima ieri, la prima fuga del Giro d’Italia 2016, cominciata in tre (tre uomini a zonzo: lui, l’olandese Tjallingii e lo spagnolo Fraile, quasi dalla partenza) e finita da solo (lui, a 9,8 km dall’arrivo), tanto da meritarsi il titolo di corridore più combattivo della giornata. Vicentino di Malo (“Libera nos a Malo”, Luigi Meneghello), ciclismo di famiglia (Pietro, fratello, corridore fino agli juniores, ed Elena, sorella, professionista), una vita a due ruota. La prima bici addirittura a due anni, Giacomo che va in giro senza rotelle, a due ruote, anche a una sola, impennando. Prima corsa a Nove e prima vittoria. Per la bici e il ciclismo abbandona gli studi da perito elettricista: come se di elettricità gli bastasse quella naturale delle proprie gambe.

Se le tappe si concludessero – a sorpresa - a 10 km dall’arrivo, se si assegnassero – con un verdetto - ai punti e non per k.o., se il criterio del giudizio – a buon rendere – fosse quello del merito e soprattutto del coraggio, Berlato sarebbe vittorioso e vincente. Perché lui va in fuga nelle corse di un giorno e in quelle di tre settimane, nelle tappe piatte e in quelle mosse, nei giorni chilometrici e in quelli altimetrici, quando è bello e quando fa brutto. Capiterà pure il giorno in cui un passaggio a livello si chiuderà poco prima del sopraggiungere del gruppo, una grandinata ostacolerà e frenerà l’inseguimento a effetto aspirapolvere, le squadre dei velocisti non trovino l’accordo o inciampino nell’ora legale o siano confuse dal black-out delle radioline. E quel giorno Berlato, com’è giusto, finalmente – fuga per la vittoria - arriverà all’arrivo.

 


Giacomo Berlato, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Giacomo Berlato (ottava tappa)

di Marco Pastonesi

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Campitello Matese (Campobasso), domenica 17 maggio 2015

Giacomo Berlato (Nippo-Vini Fantini)

Pronti-via, sparpaglio. Tutti che cercano di andare in fuga. Anch’io. Finché quando nasce la fuga buona, ho le gambe dure e pesanti, e poi nessuno mi ha detto che quella è la fuga buona, altrimenti avrei cercato di entrarci anche con le gambe in croce. E così, da quel momento in poi, mi dedico al mio capitano, Damiano Cunego, e ad accompagnarlo incolume ai piedi dell’ultima salita. A quel punto tiro il fiato e risparmio le forze. Domenica 31 maggio voglio arrivare a Milano, in bici, e mancano ancora due settimane.

Mi presento: Giacomo Berlato, da Malo, provincia di Vicenza, e il mio soprannome è “Boldi”, come Massimo Boldi, l’attore, un soprannome che porto con orgoglio. Mio papà è Pietro, metalmeccanico ora pensionato, appassionato di ciclismo, solo che lui andava in giro e non al Giro. Mia mamma è Giovanna, casalinga e – appunto – mamma, sempre presente alle corse, ma a piedi. Mio fratello è Pietro, corridore fino alla categoria juniores. Mia sorella è Elena, professionista nell’Alé-Cipollini. E io.

La prima bici a due anni, nel quartiere dicono che sono un fenomeno, perché non solo vado senza rotelle, ma anche a una ruota sola, impennando. “Quello è spericolato”, sostengono, e questo non facilita la mia libertà a due ruote. Prima corsa a Nove, provincia di Vicenza, e prima vittoria, così nel quartiere dicono che sono proprio un fenomeno. Studi così così, elettricista, ma abbandono. Invece proseguo con la bici. E’ la mia passione, è diventata il mio lavoro. Più felice di così. Infatti, ogni mattina, quando mi alzo, ringrazio Dio. Gli altri si svegliano e vanno a lavorare, io mi sveglio e vado a pedalare, che è molto meglio di lavorare.

Il primo Giro che mi ricordo è quello del 1998: tredicesima tappa, la Carpi-Schio, di 166 chilometri, primo Michele Bartoli, maglia rosa a Andrea Noè, e Marco Pantani che cade due volte in discesa. Avevo sei anni. Adesso che ne ho ventitré e partecipo per la prima volta al Giro, ogni tanto mi devo convincere che non sto sognando ma vedendo, respirando, abitando, insomma vivendo. E’ un’emozione, un’impressione, una sensazione.

Sono un attaccante: non ho paura a stare all’aria, prendere il vento, tirare tutto il giorno. La voglia di scappare è più forte della delusione di farsi raggiungere. Scappare è testa bassa e menare. Scalare è testa bassa e lottare. Vincere, credo, sarà testa bassa e godere, o forse testa alta e godere, comunque godere. Ci proverò finché non ci riuscirò. In questo Giro ci sono tre tappe intorno a casa mia: quella che arriva a Vicenza, quella che parte da Montecchio Maggiore e quella che parte da Marostica. Là ci saranno tutti i miei famigliari e tifosi.

Dimenticavo: sono alto un metro e settanta e peso cinquantanove chili. Quasi gemello del mio capitano Cunego. Se poi riuscissi a vincere, non dico tanto, ma metà, anche un terzo, ma che dico, un quarto di Cunego, sarei veramente quel fenomeno che a Malo insistono, per troppo amore, a considerarmi.

Fiuggi (Frosinone)-Campitello Matese (Campobasso) di 186 km

Arrivo: 1) Benat Intxausti (Movistar) in 4.51’34”, 2) Mikel Landa (Astana) a 20”, 3) Sebastien Reichenbach (Iam) a 31”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 4”, 3) Richie Porte (Sky) a 22”.

 


Manuel Belletti, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Manuel Belletti (dodicesima tappa)

di Marco Pastonesi

Vicenza, giovedì 21 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Manuel Belletti (Southeast)

Imola (Bologna)-Vicenza di 190 km

Pronti, via, partiti a mille, come gli altri giorni, anche peggio. Ma anche il mio ginocchio stava come gli altri giorni, anche peggio. E dopo sessanta chilometri sotto la pioggia, rischiando la pelle, mi sono detto che non ne valesse la pena. A fatica, a malincuore, sono sceso dalla bicicletta e sono salito sull’ammiraglia.

Avevo battuto il ginocchio nella tappa di San Giorgio del Sannio: quando mancavano venti chilometri all’arrivo, mi sono alzato sui pedali, poi ho preso una buca, è caduta la catena, ed è lì che, piombando a peso morto, ho battuto il ginocchio sulla pipa della bici. Ho cercato di curarmi con il ghiaccio e con speciali macchinari, ma il versamento è diventato borsite, la borsite è diventata infiammazione, l’infiammazione è diventata dolore. Mi era già capitato, ma stavolta in maniera diversa e più forte. La prima lastra effettuata alla Clinica mobile non ha evidenziato nulla, ma una successiva ecografia ha riscontrato una piccola frattura sulla punta della rotula. Lo specialista dell’ecografia mi ha detto di sospendere l’attività per trenta giorni, il mio fisioterapista, più ottimista, ha ridotto il periodo a venti giorni, io vorrei essere pronto per la partenza del Giro di Slovenia, il 18 giugno. Intanto, a casa, faccio la magnetoterapia.

E così ho dovuto abbandonare il Giro d’Italia. Questo era il quarto: due li ho conclusi, due no, e il totale delle vittorie rimane fermo a una, nel 2010, però proprio a casa, Cesenatico, anche se io sono di Gatteo a Mare. Stavolta ho collezionato due quarti posti: il primo a Castiglione della Pescaia, il secondo a Fiuggi. Nelle volate, quando non si vince, spesso c’è un piccolo dettaglio sfavorevole: la catena che salta, la fuga che arriva, un avversario che ti chiude alle transenne, un altro che si spegne invece di esplodere. Però, se solo avessi potuto, avrei barattato una mia vittoria con quella del mio amico Alan Marangoni. E’ successo a Forlì. Mi stavo preparando alla volata del gruppo, un possibile quinto posto, quando all’ultimo chilometro, su un maxischermo, ho visto Alan fuggiti dai fuggitivi e lanciato da solo al traguardo. Ero così felice per lui, che mi sono distratto e ho perso ruote e posizioni. Risultato finale: “Maranga” è stato ripreso e io non ho neanche partecipato allo sprint.

Arrivo: 1) Philippe Gilbert (Bmc) in 4.22’50”, 3) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo) a 3”, Diego Ulissi (Lampre-Merida).

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 17”, 3) Mikel Landa (Astana) a 55”.


Marco Bandiera, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Marco Bandiera (quattordicesima tappa)

di Marco Pastonesi

Sabato 23 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Valdobbiadene (Treviso)

Questa è la mia terra. Sono nato a Castelfranco Veneto, abito a Maser, oggi si partiva da Treviso, a 20 chilometri da casa. E la mia è una terra di guerra e ciclismo, che a volte sono la stessa cosa, ed è una terra di lavoro e agricoltura, dunque anche di vini. Tant’è vero che si arrivava a Valdobbiadene.

Sessanta chilometri a cronometro non li avevo mai fatti in vita mia. Ero preoccupato: temevo di scoppiare. E c’era anche la pioggia. La prima parte piatta, quasi noiosa, la seconda mossa, fin troppo. Pronti, via, emozionato, perfino sorpreso. Anche se correvo in casa, la gente mi chiamava Tom. Non capivo. Finché mi sono accorto che la macchina che precede ciascun corridore portava il cartello con il nome di un altro corridore, un belga, credo. E non avevo neanche la macchina per l’assistenza: se avessi forato, sarei rimasto a piedi. Speravo che Oscar Gatto, il mio compagno di squadra partito tre minuti prima di me, mi aspettasse, così avremmo potuto condividere la stessa ammiraglia con le ruote di scorta. Invece lui è stato subito superato da un corridore, l’ha preso come punto di riferimento, e così è riuscito a fare un tempo migliore del mio. Io ho dovuto fare attenzione per l’asfalto viscido, così quell’ora e mezza è passata anche più velocemente di quanto immaginassi, poi ho trovato anche i miei amici e tifosi che m’incoraggiavano, e sono giunto al traguardo. Per la precisione, 168° – su 179 – a 10’29” da Kiryienka. Ma la crono non è la mia specialità.

La mia specialità, qui al Giro, sono i traguardi volanti e le fughe, specialità in cui non si può mai issare… bandiera bianca. In tutt’e due le classifiche sono al secondo posto. Se centro una fuga buona, magari nella tappa di Lugano o in quella di Verbania, potrei anche guadagnarmi il primo posto. Non è una questione di soldi o premi, ma soprattutto di soddisfazione e passione. Un anno fa ero salito sul podio di Milano, proprio per la classifica dei traguardi volanti. E mi erano venuti i brividi.

Treviso-Valdobbiadene (Treviso) di 59,4 km

 


Fabio Aru, album di figurine

Il diario del Giro d’Italia: Fabio Aru (diciannovesima tappa)

di Marco Pastonesi

Cervinia (Aosta), venerdì 29 maggio 2015

Cento anni fa i bersaglieri-ciclisti. Oggi i corridori-postini. Che per “Libri in Giro” e la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza scrivono una pagina del diario della corsa

Gravellona Toce (Vco)-Cervinia (Aosta) di 236 chilometri

Fabio Aru (Astana)

Ho urlato di gioia, di liberazione, di felicità. Ho urlato perché non potevo farlo quando stavo male. Ho urlato perché ho vinto. Primo. E’ un’emozione impossibile da descrivere a parole, a frasi, a concetti. Per esprimerla, bisogna soltanto urlare.

E’ dallo scorso novembre che mi preparo per questo Giro d’Italia. Uscite, allenamenti, lavori. Raduni, ritiri, anche in altitudine. Poche corse, più per verificare che per competere. Tutto concentrato su queste tre settimane. Non solo io, ma anche il mio gruppo, compagni che sono diventati amici. Nel condividere fatiche e sacrifici, obiettivi e gare, tappe e classifica.

Ho 24 anni e mi ritengo privilegiato, perché faccio quello che voglio: andare in bici. E’ la mia passione da quando, fra calcio e tennis, ho scelto la bicicletta. E poi ho cominciato a gareggiare. E poi ho visto il Giro passare, in Sardegna, e quel giorno ho deciso che avrei voluto fare parte anch’io del gruppo.

Ci sono stati giorni in cui sono stato male: mal di stomaco, mal di pancia, non so, ma faticavo ad alimentarmi e mi ritrovavo svuotato di energie. Però, come dice Contador, sono proprio i giorni di crisi a farti capire chi sei, come sei, e se meriti un Giro d’Italia.

Mi sto facendo le ossa, prima da dilettante, poi da professionista. Tutto serve, tutto aiuta: sconfitte e vittorie, compagni e avversari. Quest’anno mi sono preso nuove responsabilità e pressioni, ma responsabilità e pressioni non mi spaventano, anzi, mi spingono. Domani – come nel film “Via col vento” – è un altro giorno. E bisogna ripartire sempre da zero.

Arrivo: 1) Fabio Aru (Astana) in 6.24’13” alla media di 36,854 km/h, 2) Ryder Hesjedal (Cannondale-Garmin) a 28”, 3) Rigoberto Uran (Etixx-Quick Step) a 1’10”.

Classifica: 1) Alberto Contador (Tinkoff-Saxo), 2) Fabio Aru (Astana) a 4’37”, 3) Mikel Landa (Astana) a 5’15”.

 


Giacomo di cristallo, Gianni Rodari

Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l’aria e l’acqua.

… Si vedeva il suo cuore battere, si vedevano i suoi pensieri guizzare come pesci colorati nella loro vasca.

Una volta un amico gli confidò un segreto, e subito tutti videro come una palla nera che rotolava senza pace nel suo petto, il segreto non fu più tale.

Il bambino crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo, e ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte…

La gente lo chiamava Giacomo di cristallo…. Purtroppo, in quel paese, salì al governo un feroce dittatore, e cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo. Chi osava protestare spariva senza lasciar traccia…

 

La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze. Ma Giacomo non poteva tacere…

Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione… La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri…

Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte del tiranno, perché la verità èpiù forte di qualsiasi cosa, più luminoso del giorno, più terribile di un uragano.

Gianni Rodari, da Favole al telefono

lettura proposta per Bici chiama Pace laboratori


Haiku in bicicletta, Pino Pace

Ruota davanti

Memoria alla strada

Una canzone.

 

Sotto le ruote

Gira tutto il mondo,

pedalo piano.

 

Tanti amici

un frullar di pedali

Cadono le foglie.

 

Pino Pace, HAIKU in bicicletta, Notes edizioni

letture proposte per BICI chiama PACE


I 33 nomi di Dio, di Margareth Yourcenar

  1.  MARE AL MATTINO
    2.   RUMORE DALLA SORGENTE NELLE ROCCE SULLE  PARETI DI PIETRA
    3.   VENTO DI MARE A NOTTE SU UN'ISOLA
    4.   APE
    5.   VOLO TRIANGOLARE DEI CIGNI
    6.   AGNELLO APPENA NATO BELL'ARIETE PECORA.
    7.   IL TENERO MUSO DELLA VACCA  - IL MUSO   SELVAGGIO DEL TORO
    8.   IL MUSO PAZIENTE DEL BUE
    9.   LA FIAMMA ROSSA NEL FOCOLARE.
    10. IL CAMMELLO ZOPPO CHE ATTRAVERSÒ
    LA GRANDE CITTÀ AFFOLLATA ANDANDO  VERSO LA MORTE.
    11.  L'ERBA L'ODORE DELL'ERBA.
    12.  DISEGNO  DI MY - ASTERISCHI   O  STELLINE
    13.  LA BUONA TERRA LA SABBIA E LA CENERE
    14.  L'AIRONE CHE HA ATTESO TUTTA  LA NOTTE, INTIRIZZITO
    E CHE TROVA DI CHE PLACARE LA SUA FAME ALL'AURORA
    15.  IL PICCOLO PESCE CHE AGONIZZA NELLA GOLA  DELL' AIRONE
    16.  LA MANO CHE ENTRA IN CONTATTO CON LE COSE
    17.  LA PELLE - TUTTA LA SUPERFICIE DEL CORPO
    18.  LO SGUARDO E QUELLO CHE GUARDA
    19.  LE NOVE PORTE DELLA PERCEZIONE
    20.  IL TORSO UMANO
    21.  IL SUONO DI UNA VIOLA O DI UN LAUTO   INDIGENO
    22.  UN SORSO DI UNA BEVANDA FREDDA O CALDA
    23.  IL PANE
    24.  I FIORI CHE SPUNTANO DALLA TERRA A  PRIMAVERA
    25.  SONNO IN UN LETTO
    26.  UN CIECO CHE CANTA E UN BAMBINO INVALIDO
    27.  CAVALLO CHE CORRE LIBERO
    28.  LA DONNA  - DEI  -  CANI
    29.  I CAMMELLI CHE SI ABBEVERANO CON I LORO PICCOLI
    NEL DIFFICILE WADI
    30.  SOLE NASCENTE SOPRA UN LAGO ANCORA MEZZO GHIACCIATO
    31.  IL LAMPO SILENZIOSO IL TUONO FRAGOROSO
    32.  IL SILENZIO FRA DUE AMICI
    33.  LA VOCE CHE VIENE DA EST ENTRA DALL'ORECCHIO DESTRO
    E INSEGNA UN CANTO

testo letto durante i laboratori Bici chiama Pace

i bambini di 5 e 6 anni hanno aggiunto

34. Guardare le stelle

35. Imparare ad andare in bicicletta

36. Aiutare gli amici

37. Le carezze dalla mamma

38. Salutarsi con un bacio sulla guancia

 


...

Un bel mattino partirono dalla terra

da tre punti diversi tre razzi.

 

Sul primo c'era un americano

che fischiettava tutto allegro un motivetto jazz.

 

Sul secondo c'era un russo

che cantava con voce profonda «Volga, Volga»

 

Sul terzo c'era un cinese

che cantava una bellissima canzone,

che agli altri due sembrava stonata

 

Tutti e tre volevano arrivare primi su Marte

per mostrare che era più bravo.

 

L'americano infatti non amava il russo

e il russo non amava l'americano,

e il cinese diffidava di tutti e due.

 

E questo perché l'americano per dire buon giorno

diceva «how do you do»

Il russo diceva: «3APABCTBYNTE»

E il cinese diceva: «YJYJY!»

Così non si capivano e si credevano diversi.

 

Siccome tutti e tre erano bravi,

arrivarono su marte quasi nello stesso momento.

Scesero dalle loro astronavi

col casco e la tuta spaziale…

 

....trovarono

un paesaggio meraviglioso e inquietante:

il terreno era solcato da lunghi canali

pieni d'acqua color verde smeraldo.

C'erano strani alberi blu con uccelli mai visti ,

dalle piume di colore stranissimo.

 

All'orizzonte si vedevano montagne rosse

che mandavano strani bagliori.

 

I cosmonauti guardavano il paesaggio

e si guardavano l'un l'altro,

e se ne stavano ciascuno in disparte

diffidando l'uno dell'altro.

 

Poi venne la notte.

C'era intorno uno strano silenzio,

e la Terra brillava nel cielo

come fosse una stella lontana.

 

I cosmonauti si sentivano tristi e sperduti

e l'americano, nel buio, chiamò la mamma.

Disse: «Mommy»…

 

E il russo disse: «Mama.»

 

E il cinese disse : «Ma-Ma.»

 

Ma capirono subito che stavano dicendo

la stessa cosa e provarono gli stessi sentimenti.

Così si sorrisero, si avvicinarono,

accesero insieme un bel fuocherello

e ciascuno cantò le canzoni del suo paese.

Allora si fecero coraggio e,

attendendo il mattino impararono a conoscersi.

...

lettura scelta per BICI chiama PACE

Gira e rigira, mi gira la testa,

mondo sospeso vestito a festa

palla pallina verde e turchina,

di qua c’è sera, di là mattina,

di qua c’è oggi, di là domani,

luoghi vicini e luoghi lontani.

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