Quel maggio del '68. "Voglio una bici", e così Gigi Sgarbozza vinse una tappa al Giro

di MARCO PASTONESI

Da piccolo stufava tutti: "Voglio una bici, voglio una bici", ripeteva. Finché gli sportivi - gli amici del bar dello sport ad Amaseno, a metà strada tra Frosinone e Terracina - organizzarono una colletta, tirarono su una cifra, comprarono una Legnano e gliela regalarono, poi, sfiniti, gli dissero: "E adesso pedala". Così Luigi Sgarbozza detto Gigi o Gigetto si ritrovò al Giro d'Italia. Mestiere velocista anche se era alto la metà di Dino Zandegù e pesava la metà di Marino Basso, secondo anno da professionista e vittorie in carriera zero, aveva 23 anni e un sogno. Questo.

"Quattordicesima tappa, da Vittorio Veneto a Marina Romea, 194 chilometri, la fuga nata dopo 50-60, 17 corridori, nessuno di classifica, giornata di libertà per tutti, giornata di gloria per uno solo. Avevo un compagno di squadra, Guido Neri, ma lui non volle mettersi a mia disposizione, e io non volli mettermi a suo servizio, così ognuno fece la sua corsa. Mi guardai intorno, studiai la situazione, mi concentrai su un francese, Charly Grosskost, maglia della Bic, quell'anno secondo alla Milano-Sanremo e primo nel cronoprologo al Giro, puntai tutto su di lui e a qualche chilometro dall'arrivo m'incollai alla sua ruota. Ultimo chilometro, meno 800, meno 600. Senonché, a 400 metri dal traguardo, lui era sedicesimo e io diciassettesimo. Capii che non era la ruota giusta. Rimontai, li rimontai tutti, a uno a uno, l'ultimo fu un tedesco, Wilfried Peffgen, e vinsi".

Gigi sapeva che cosa fosse il ciclismo ancora prima di salire su una bici e attaccarsi il dorsale: "Perché sapevo che cosa fosse la fatica. Quinta elementare, poi cinque anni come fabbro. Lavoravo senza maschera, e la notte, per riprendermi, dormivo con due fette di patate sugli occhi. Intanto scuole serali ed esame di terza media. A 15 anni emigrai a Roma, a Cinecittà, da una zia. Trovai lavoro come tecnico idraulico. Sveglia alle 5, due ore di allenamento, alle 7 e mezzo in tram a lavorare in un cantiere ai Parioli. Finché trovai un impiego in uno studio cinematografico. Proiettavo anteprime per attori e attrici: Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Brigitte Bardot. Si finiva di notte, ma la notte era illuminata a giorno dai flash dei paparazzi".

Però c'era la bici, c'era il ciclismo, c'era il Giro d'Italia. "Nella Max Meyer, quella del barattolo rovesciato e il cane con il pennello in bocca, una squadra abbastanza forte, fatta di combattenti, che correvano alla garbaldina. Michelotto: serio, anche troppo. Neri: furbo, veloce. Durante: amico, dormivo con lui. Ballini: di classe, ma discontinuo. Galbo: pazzo, burlone. Cucchietti: l'ombra di Galbo, inseparabile. Fantinato: duro, forte. Stefanoni: un gigante buono... Direttore sportivo: Gastone Nencini, troppo bravo per vivere in questo mondo, ero suo tifoso quando correva, ero suo tifoso anche quando dirigeva. Si campava un po' con lo stipendio, poco più alto di quello di un operaio, un po' con i premi, che si dividevano fra tutti i compagni, un po' con la gloria, eravamo personaggi, giravano delle donne, a noi come ai giornalisti, era una cosa naturale, poi bisognava decidere se fare la vita del corridore o no. E si campava anche con qualche trucco. Uno lo avevo imparato da un collega, Giancarlo Polidori. In salita si lamentava, disperato: 'Mi è saltata la catena'. E gli spettatori, impietositi, lo spingevano".

Era il '68. "Ma noi corridori pensavamo a correre, chiusi nella nostra strada e nella nostra fatica. Però qualcosa si sentiva, si vedeva, si intuiva. E si ascoltava. Io avevo una passione per Adriano Celentano. Lo incontrammo ad Amatrice, stava girando il film 'Serafino', eravamo nello stesso albergo,

fu una fortuna. E poi Fabrizio De André. Poco tempo fa mi è stata rubata la macchina nel centro di Grottaferrata, dentro avevo tutti i cd di De André. Mi è dispiaciuto più per i cd che per la macchina. Quasi. Smisi di correre a 28 anni. Troppo presto. La Max Meyer squadra si era sciolta, ma era rimasta la società. Fui assunto come rappresentante. Avevo successo: i clienti mi riconoscevano e acquistavano vernici anche se non ne avevano bisogno"


Quel maggio del '68: quando Armani 'scoprì' Merckx

L'italiano ha sempre legato la sua vicenda a quella del Cannibale - sia da avversario che da compagno di squadra - a partire dai mondiali dilettanti a Sallanches nel 1964. Il tutto fino ad una tappa storia del Tour, quando giunsero al traguardo dopo 250 km di fuga

di MARCO PASTONESI

Luciano Armani fu il primo italiano a scoprire Eddy Merckx. A sue spese. E ne avrebbe fatto volentieri a meno. Mondiali dilettanti 1964, a Sallanches, in Francia. Due uomini al comando: loro due. Mancavano due chilometri al traguardo: Armani pensava di battere Merckx in volata, anzi, ne era quasi certo, ma alla volata neppure arrivarono, perché Merckx si sfilò Armani dalla ruota come se fosse un bambino e vinse, braccia al cielo. Sul palco, il giornalista francese Leon Zitrone intervistò Merckx pubblicamente, poi concluse scandendo nome e cognome, "Ed-dy-Merckx", e ammonendo gli spettatori: "Ricordatevi bene questo nome!".

"Me lo ricordavo bene quando, quattro anni dopo, Merckx fu ingaggiato nella mia squadra, la Faema, con la maglia di campione del mondo, stavolta dei professionisti. Il primo raduno, due settimane, a Cannitello, una frazione di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. La Faema era metà belga e metà italiana, metà corridori fiamminghi e metà corridori emiliani, noi ci allenavamo una volta al giorno, la mattina, loro due volte al giorno, la mattina e il pomeriggio. Quando il direttore sportivo, Vincenzo Giacotto, ci disse che avremmo dovuto fare come loro, Vittorio Adorni, il corridore più esperto e il capitano degli italiani, ci ordinò di seguire i belgi, di nascosto, il pomeriggio. I fiamminghi uscirono dall'albergo, fecero 5-6 chilometri in bici, poi si fermarono in un bar, si sedettero a un tavolo e ordinarono da bere. Adorni li minacciò: 'Faccio la spia'. 'No', lo pregò Merckx. 'Allora da adesso si fa come dico io', ribatté Adorni. E così fu".

La prima corsa del 1968 fu il Giro di Sardegna: "L'anno prima avevo vinto io e Merckx era arrivato secondo. 'Stavolta mi lasci vincere?', mi domandò Merckx, sorridendo. Infatti: primo Merckx, secondo io, e il grande regista era stato Adorni, terzo. Al Giro d'Italia eravamo tutti per Merckx. Io ebbi due giornate di libertà entrando in due fughe buone: la prima a Piacenza, nel finale si andava a scatti, persi l'attimo, sesto, e la seconda alle Tre Cime di Lavaredo, avevamo 10 minuti di vantaggio, mi ero risparmiato, poi Merckx venne a prenderci tutti, quinto. Giacotto mi sgridò: 'Ricordati che nella mia squadra chi va in fuga ha l'ordine di vincere'. Come se fosse facile, come se non ci avessi pensato e provato".

Armani che veniva da famiglia numerosa ("Dodici, tra genitori, zii e fratelli"), che aveva fatto le elementari ("Poi la quinta e la sesta, poi basta"), che si era innamorato della bicicletta da corsa ("Il regalo per la cresima"), che cominciò subito a lavorare ("Garzone a Felino in una salumeria di classe, in bici, due ceste, una davanti e l'altra dietro, per portare la spesa ai clienti ricchi"), che disputò la prima corsa a 18 anni ("Vincere era arrivare al traguardo"), che finalmente vinse ("La Torrechiara-Corniglio, cronocoppie"), che corse otto anni da professionista ("E rifarei tutto quello che ho fatto"). Armani che un giorno si sarebbe finalmente preso una solenne rivincita proprio su Merckx, da avversario: "Tour de France 1971, giorno di riposo, nello stesso albergo della squadra di Merckx. Noi ci eravamo sciolti i muscoli, loro si erano allenati a tutta per due ore e mezzo. Nell'androne Merckx imprecava, da solo, in fiammingo. Mi vide

e mi disse: 'Domani, se vuoi arrivare fra i primi, alla partenza sta' davanti'. C'era una discesa. Merckx e i suoi attaccarono, due spagnoli della Kas deragliarono, si scatenò la guerra, partì la fuga con Merckx, ci entrai anch'io, volammo i quasi 250 chilometri a quasi 45 e mezzo di media, piombammo al traguardo un'ora e mezza prima del previsto, a Marsiglia allo sprint primo io e secondo Merckx, e il sindaco giunse a premiazioni già finite"


Quel maggio del '68 - Renato Laghi, l'uomo che non cadeva mai

"Nell'edizione di 50 anni fa pioveva sempre, ma nonostante tutta quell'acqua, non caddi mai, né in quel Giro né negli altri 11. La verità è che per stare alla larga dei guai prendevo un sacco di aria..."

di MARCO PASTONESI 

Renato Laghi s'innamorò della bicicletta, del ciclismo e della vita a cinque anni: andò a vedere il Giro di Romagna, si mise sul bordo della strada, c'era un uomo solo al comando ed era Fausto Coppi, per il secondo corridore dovette aspettare cinque minuti. "Il Giro d'Italia del 1968 fu il primo dei miei 12, il più bello, perché in salita stavo sempre con i migliori e i giornalisti mi giudicarono la rivelazione fra i giovani. Avevo 23 anni, ero magro come un chiodo, correvo per la Germanvox, gregario per Vito Taccone, abruzzese, e Ole Ritter, danese. La corsa era gestita da due squadroni, la Faema di Merckx e la Salvarani di Gimondi, le altre squadre cercavano giornate di gloria. Si corse sempre sotto la pioggia: se si cominciava con il sole, si finiva con un temporale, e se si cominciava con un temporale, a volte si finiva con il sole. Siccome ci andai con una bronchite e il catarro, mi curavo con l'aerosol e la bici. E nonostante tutta quell'acqua, non caddi mai, né in quel Giro né negli altri 11, la verità è che per stare alla larga dei guai prendevo un sacco di aria. Il direttore sportivo era Italo Mazzacurati, che era stato un campione, ma fra i gregari, e amava divertirsi. Alla sua maniera. Un giorno non resistette alla tentazione: davanti a un muro di folla, fermò l'ammiraglia, prese una bicicletta, ci saltò su e pedalò contro gli spettatori per farsi largo e mettergli paura, gli spettatori si scansarono e lui centrò uno spartitraffico. Lo ritrovammo al traguardo ferito alla faccia, con un asciugamano insanguinato fra le mani".

Il '68 era un anno da "Processo alla tappa": "Taccone aveva il monopolio, bastava lui a rappresentare tutta la squadra, però io avevo un alleato in Guerrino Farolfi, mio compaesano, che era stato corridore ed era il braccio destro di Adriano De Zan, e mi citava ogni volta che poteva, 'il faentino Laghi', e a casa erano tutti contenti. Taccone aveva due facce, una buona e l'altra cattiva, da una parte era simpatico e dall'altra vendicativo, da una parte egoista e dall'altra generoso, quando eravamo in ritiro nella foresteria del Velodromo olimpico a Roma mi disse di andare - in bici - a casa sua, ad Avezzano, 140 chilometri, ci fermammo a mangiare e a dormire, e il giorno dopo ritornammo in ritiro".

Il '68 era un anno da Vincenzo Torriani, il patron del Giro: "Era deciso e geniale, ma anche tirannico e irascibile". Il '68 era un anno da figurine Panini: "A 50 anni di distanza sono andato a cercare la mia su eBay, il prezzo base è di tre euro e mezzo, non pensavo di valere così poco". Il '68 era un anno di grandi giornalisti: "Luigi Chierici, Ermanno Mioli e Dino Ronchi per 'Stadio', Gianni Mura era alla 'Gazzetta dello Sport' e veniva sempre in caccia di notizie, e della 'Gazzetta' era anche Luigi Gianoli, che veniva a intervistarmi quando facevo il bagno o i massaggi". Il '68 fu anche l'anno delle Tre Cime di Lavaredo: "Ero nella fuga iniziale, fui ripreso a 2 chilometri dal traguardo prima da Merckx e poi da Adorni, sotto la neve e sul ghiaino spingevo - faticosamente - il 44 davanti e il 25 dietro, all'arrivo fui avvolto in una coperta militare dagli alpini".

Il '68 era anche il '68 delle lotte sociali: "Il ciclismo stava fuori dalla società. Noi, in squadra, parlavamo romagnolo e pedalavamo oppure giocavamo a carte. Guadagnavo 80mila lire al mese, un operaio 60mila, ma anche se io per 10 mesi e l'operaio per 12, guadagnavo sempre di più io, e con la vita che facevamo quello mi sembrava un grande privilegio"


Quel maggio del '68 - Vittorio Adorni, l'unico che poteva dare ordini a Merckx

Il fuoriclasse emiliano, campione del mondo a Imola proprio 50 anni fa, racconta quando il Cannibale gli diede retta ed andò a stravincere il Giro alla Tre Cime di Lavaredo

di MARCO PASTONESI

Merckx lo chiamava "il Professore". "Perché avevo otto anni più di lui, perché ne avevo altri quattro di professionismo più di lui, perché parlavo l'italiano meglio di lui, e perché il direttore sportivo, Vincenzo Giacotto, aveva dichiarato che tutte le decisioni sarebbero state prese insieme a me. E siccome al Giro d'Italia dormivano nella stessa camera, Eddy sapeva che non lo avrei mai perso di vista".

Vittorio Adorni era "il Professore". "Avevo trent'anni. Avevo un ruolo da capitano in una nuova squadra, la Faema, minacciato proprio da quel nuovo compagno, Merckx. Avevo già una vittoria al Giro d'Italia, due al Giro di Romandia e una al Giro del Belgio, e tra compagni (Merckx) e avversari (Gimondi) non so quanto avrei potuto vincere ancora. Avevo anche voglia di fare altro: in tv avevo debuttato al 'Processo alla tappa', Sergio Zavoli mi aveva voluto ospite quasi fisso accanto a lui, e c'era la possibilità di condurre un nuovo telequiz".

Ma prima c'era quel maggio del '68. "Il primo giorno Merckx conquistò tappa e maglia. In camera gli dissi che quella maglia rosa dovevamo perderla. Cosa?, mi fece, arrabbiatissimo. Se vuoi vincerla, gli spiegai, dobbiamo perderla. L'aveva stesa su una sedia, e la guardava incantato così come si ammira un capolavoro agli Uffizi o al Louvre. E aggiunsi che l'avremmo ripresa, definitivamente, alle Tre Cime di Lavaredo. Anche se a fatica, lo convinsi. E lo convinsi anche ad attaccare solo dopo aver ricevuto un mio segno di consenso. E andò proprio così: Dancelli prese la maglia rosa e la tenne fino al giorno delle Tre Cime. Lì andò via una fuga, con dei buoni corridori, e con un vantaggio che arrivò a una decina di minuti. Merckx scalpitava: non ti preoccupare, gli dissi. Ma sul Passo di Sant'Osvaldo Merckx non resistette più e scattò. Andai da Marino Vigna, il nostro direttore sportivo, e lo pregai di fermare Merckx. Impossibile, mi rispose. Bisogna fermarlo, lo implorai, a tutti i costi. Vigna andò da Merckx e gli ordinò di fermarsi. Invano. Glielo ripeté finché Merckx gli disse va bene, ma come? Vigna trovò la soluzione: fa finta di avere forato. Così Merckx si portò sul bordo della strada e cominciò ad armeggiare con la ruota fino al nostro arrivo, qui rientrò nel gruppo, mi si avvicinò, cercò il mio sguardo e se avesse potuto fulminarmi, lo avrebbe fatto. Tranquillo, gli dissi, non è ancora il momento. Il momento arrivò dopo Auronzo verso Cortina: Vandenbossche, che era un bel cammello, attaccò un ritmo allegro veloce, dietro di lui Merckx, Gimondi, Zilioli e io, e il gruppo si frazionò. Ogni 500 metri Eddy si girava e mi guardava, ma io scuotevo la testa. Quando vidi che erano tutti cotti, finalmente feci cenno di sì, e Eddy scattò.

Gimondi fece uno sforzo terribile per riportarsi sotto di lui. Eddy rifiatò, poi mi guardò, gli feci un altro cenno di sì, e lui rifilò un secondo colpo. Gimondi cedette. Piano piano tornai sotto Merckx all'inizio del Passo Tre Croci. Prima di Misurina, gli dissi vai. E lui andò. Tappa, maglia e Giro. In sala-stampa Eddy mi sorrise. In camera, mentre facevo il bagno, mi chiese come avessi fatto a capire il momento giusto. Lo capirai, gli dissi, quando avrai la mia età. La gente non me lo perdonò: alla fine di quel Giro, a Napoli, fui fischiato per aver aiutato uno straniero a vincere. Mi rifeci qualche mese più tardi: campione del mondo a Imola".
Che anno, il '68. "Le lotte degli operai e le manifestazioni degli studenti, gli striscioni sui cancelli delle fabbriche e i cartelli fra la gente nelle piazze. Anche nello sport tirava un'altra aria: Merckx che conquistò il Giro al suo esordio, l'Italia che vinse gli Europei di calcio, poi le Olimpiadi di Città del Messico con Tommy Smith e John Carlos con il pugno chiuso sul podio dei 200 metri". Intanto anche Adorni aveva fatto la sua piccola rivoluzione, cedendo alle lusinghe del telequiz: si intitolava "Ciao mamma".