3. RELAZIONI - Alla fine della città

https://www.youtube.com/watch?v=92xvFjyIMSE&t=184s


1. CONFINI - Alla fine della città

https://www.youtube.com/watch?v=l_-hev1i8pg&feature=youtu.be

Da Roma a Ostia in bicicletta: per ripercorrere un itinerario storico, per dribblare un tragitto urbano ma anche per esplorare un sentiero intatto, dunque una pedalata un po’ archeologica e un po’ urbanistica, e a tratti miracolosa.

"Tutti al mare!": da Roma a Ostia, in bicicletta, in due tappe (dalla ex Cartiera Latina sull'Appia Antica fino a Decima, e da Acilia fino all'Idroscalo) e tre video. Questo è il primo: con gli interventi dell'urbanista Roberto Pallottini, della ideatrice Fernanda Pessolano, del naturalista Umberto Pessolano e della scrittrice Carola Susani. L'itinerario fa parte del progetto "Alla fine della città", in cui si propongono anche pedalate e camminate letterarie alla riscoperta di una Roma nascosta, trascurata, dimenticata...
Ed è una gimkana da guerriglia urbana, fra il traffico macchinario e quello esistenziale.

Video di Carlo Molinari, script Marco Pastonesi


STORIE E CONTROSTORIE di e con Ascanio Celestini

SABATO 3 NOVEMBRE - NARRAZIONE

ore 21

Teatro del Lido Ostia, via delle Sirene 22                                

Storie e Controstorie                                        

di e con Ascanio Celestini

Ingresso: 10 € intero / 8 € ridotto, per tutti

Ascanio Celestini

                                                                      

Sono storie dette a margine di altri spettacoli. Racconti scritti in fretta e poi riletti e ri-detti, messi da parte e ripescati. C’è toni mafioso, presidente del partito dei mafiosi e toni corrotto presidente del partito dei corrotti, ma c’è anche l’opposizione che gioca a bridge nel salottino privato del bar della mafia in via della corruzione. C’è il piccolo paese che forse ci sembra piccolo perché lo vediamo da lontano, o forse ci sembra ancora lontano, mentre è soltanto piccolo piccolo.

In “Confessione di un assassino” Joseph Roth fa dire a Golubcik che «le parole sono più potenti delle azioni - e spesso rido quando sento l’amata frase: “Fatti e non parole!”. Quanto sono deboli i fatti! Una parola rimane, un fatto passa! Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata soltanto da un uomo». Nei miei racconti cerco di mettere insieme le parole e non di fatti. Certe volte non accade niente. Un meccanismo che si inceppa è l’unico avvenimento. Spesso i personaggi non hanno nome e le relazioni arrivano quasi ad azzerarsi. Ci sono le parole che diventano semplici come rotelle di un ingranaggio, come chiodi che tengono insieme dei pezzi di legno. I racconti di Storie e Controstorie sono microstorie che iniziano e finiscono in pochi minuti, una specie di concept album dove canzoni diverse raccontano un unico luogo. Qualcuna proviene dalla tradizione popolare, ma tutte hanno in comune l’improvvisazione. Salgo in scena senza copione e scaletta.

Ascanio Celestini

 

 

 


LIBRI NEL GIRO 2018 - Interviste impossibili - Colnaghi e quel ramo del lago: "Io mancato canottiere, ora Sagan è il mio eroe"

Alessandro Manzoni intervista Andrea Colnaghi

Intervista 'letteraria' nell'ambito dell'iniziativa "Libri nel Giro" a uno dei protagonisti del Giro d'Italia under 23

ROMA - Giro d'Italia Under 23: 10 giorni (dal 7 al 15 giugno), 11 frazioni (un cronoprologo, otto tappe e due semitappe, di cui una ancora a cronometro), 1206,9 km da Forlì a Cà del Poggio (Treviso), 176 corridori di 30 squadre, il meglio del ciclismo giovanile internazionale. Stavolta "Libri nel Giro" (il progetto dell'associazione Ti con Zero, per la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza e le Biblioteche di Roma) propone una serie di interviste cicloletterarie.

Alessandro Manzoni intervista Andrea Colnaghi. Dorsale 82, vent'anni, lombardo di Mandello del Lario, del Team Pala Fenice di Palazzago (Bergamo).
"Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti" ("I promessi sposi").

"Sono nato a Lecco, abito a Mandello del Lario, ma prima in Brianza. Forse sarei dovuto diventare un canottiere, Mandello è la patria della leggendaria Canottieri Moto Guzzi. E invece ciclismo. La prima bici, una Colombo, rossa, quando avevo sei anni. La prima corsa a Lecco, da G1, categoria giovanissimi, a sette anni: primo mio fratello gemello Davide, secondo io. Ero già arrivato secondo alla nascita: primo Davide, secondo io, quasi in volata. La prima vittoria forse da junior, ma non mi ricordo esattamente dove".
"Senza esempi non si fa nulla" ("I promessi sposi").
"Il mio primo eroe è stato Marco Pantani, anche se non avevo neppure un anno quando lui vinse Giro e Tour. Il mio attuale eroe è Peter Sagan. Per me la bici è la possibilità di sfogarmi, per me il ciclismo è passione, fatica e poi divertimento, per me la squadra è una seconda famiglia, ma anche la mia famiglia è una squadra. Il papà, Fabio, informatico, ha corso fino tra i dilettanti. E oltre a Davide e a me, c'è anche Luca, più piccolo, che gareggia per la Sangemini. L'unica che non pedala è la mamma, Viviana. Ma lei pedala anche senza bicicletta, al lavoro e a casa".
"Ecco il pane della provvidenza!" ("I promessi sposi").
"Alla terza superiore ho smesso di studiare. La scuola non faceva per me. Da allora mi sono dedicato alla bici e ai cani. In famiglia ne abbiamo un allevamento: border collie, jack russell, pastori tedeschi, labrador, una trentina, e un lupo, femmina, Morgana, da tenere in casa, e anche un gatto, che va d'accordo con tutti. I cani insegnano l'affettuosità, la fedeltà, l'obbedienza. Tutte caratteristiche preziose anche per i corridori. Dai cani c'è molto da imparare".
"S'ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo" ("Il conte di Carmagnola").
"La partenza è libertà, l'arrivo è liberazione. Il rifornimento è conforto, la foratura è imprecazione. La salita è fatica, e dice sempre la verità, la volata è stress. Io sono velocino e tengo bene in salita. Invece la cronometro non è roba per me. E qui, il primo giorno, nel cronoprologo, sono arrivato ultimo: io ultimo e Davide quintultimo, cinque secondi meno di me. Vincere è tutto, ma qui nessuno perde, anche arrivare è già una mezza vittoria. Quest'anno avrò già collezionato una trentina di giorni di corse, vittorie zero, secondi e terzi posti zero, migliore piazzamento un sesto o un ottavo, non ricordo bene. Qui cerco di fare esperienza, e proverò a fare bene in qualche tappa. Il mio futuro voglio viverlo in bici, e per riuscirci ce la metterò tutta".
"Le vie di Dio son molte, più assai di quelle del mortal" ("Adelchi").
"Religioso? Poco. Appassionato? Molto".
"Volete aver molti in aiuto? Cercate di non averne bisogno" ("I promessi sposi").
"Leggo poco, però guardo tanto. Guardo intorno, guardo gli altri, guardo fuori, guardo anche dentro, e guardo la tv. Anche guardando s'impara".


LIBRI NEL GIRO 2018 - Interviste impossibili - Corradini e i comandamenti del ciclismo

di MARCO PASTONESI

Giro d'Italia Under 23: 10 giorni (dal 7 al 15 giugno), 11 frazioni (un cronoprologo, otto tappe e due semitappe, di cui una ancora a cronometro), 1210,5 km da Forlì a Ca' del Poggio (Treviso), 176 corridori di 30 squadre, il meglio del ciclismo giovanile internazionale. Stavolta "Libri nel Giro" (il progetto dell'associazione Ti con Zero, per la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza e le Biblioteche di Roma) propone una serie di interviste cicloletterarie.

Federico Fellini intervista Michele Corradini. Dorsale 185, ventidue anni, umbro di Perugia, del Team Mastromarco Sensi Nibali.

"Il bab del mi bab diceva così: per campè sein, bisogna pisè spes com i chein" ("Amarcord", 1973).
"Tutto cominciò con mio nonno: Ascanio Arcangeli. Nel 1931, a vent'anni, era già campione umbro. Partecipò al Giro d'Italia nel 1937 e 1938. E ricominciò a correre dopo la Seconda guerra mondiale, combattuta da bersagliere, e nonostante le ferite subite in battaglia. Il nonno Ascanio andava a correre in bicicletta: se vinceva, con i soldi del premio tornava a casa in treno; se non vinceva, tornava a casa in bici".
"Un babbo fa per cento figlioli e cento figlioli non fanno per un babbo" ("Amarcord", 1973).
"Papà Gabriele ha un distributore di benzina, mamma Teresa ha un negozio, vende e ripara le biciclette, da giovane anche lei correva, e una la vinse. Mia sorella maggiore Elena giocava a pallavolo, e la squadra - maschile - di Perugia quest'anno ha conquistato scudetto, Coppa Italia e Supercoppa. Così lo sport è di casa. La mia prima corsa da G6, a 12 anni: piazzato. La mia prima vittoria al secondo anno da esordiente, a 14 anni: a Tordandrea, una frazione di Assisi, in volata".
"Questo qui è un pezzo di catena dello spessore di mezzo centimetro, più forte dell'acciaio" ("La strada", 1954).
"Ho respirato l'aria dell'officina fin da piccolo. E so riparare la bici da solo. Ho tre bici, due, da corsa, sono della squadra, la terza, una mountain bike, è mia, e la uso per andare a spasso, per svago, d'inverno. La prima cosa che guardo in una bici è la forma del telaio. La parte più delicata è il cambio, perché è il punto in cui chi va in bici entra nella bici, in accordo, in armonia, in simbiosi, diventando - se possibile - un tutt'uno".
"Chi cerca Dio, lo trova dove vuole" ("La dolce vita", 1960).
"Il ciclismo mi ha dato i comandamenti. Il primo: la costanza. Il secondo: la disciplina. Il terzo: chi la dura, la vince. Finora 13 vittorie: due da esordiente secondo anno, una da allievo primo anno, quattro da allievo secondo anno, tre da junior, tre da under 23. La bici è libertà, il ciclismo è passione. Leggo poco, tra i giornali 'La Gazzetta dello Sport'. Guardo sport, film, serie tv. Per il ciclismo nel 2014 sono emigrato dall'Umbria alla Toscana, da Perugia a Mastromarco. La vita del corridore sembra vuota, invece è fatta di allenamenti e corse, ma anche di riposo e recupero".
"Ecco sì, nell'amore c'è questa tensione. Solo l'amore mi dà questa forza" ("La dolce vita", 1960).
"Convivo con Gemma. Lei non sapeva nulla di ciclismo, all'inizio mi chiedeva perché non andassi di qua o di là, perché non uscissi la sera. Adesso lo sa, si è appassionata, mi capisce, mi comprende. Il ciclismo è uno sport speciale, stancante, molto stancante. Ogni corsa ha una storia, ogni storia ha una sua trama, le sue avventure, e un finale da inventare".
"La felicità consiste nel poter dire la verità senza far mai soffrire nessuno" ("8 e ½").
"La verità te la dice solo la salita. Quando sono a Mastromarco, la salita di riferimento è il San Baronto da Lamporecchio. Quando sono a Perugia, è il Piccione, la stessa che faceva mio nonno Ascanio, caricandosi di pesi per allenarsi di più".


LIBRI NEL GIRO 2018 - Interviste impossibili - La Terra Pirrè e il fascino dello scalatore: "Cerchiamo sempre di superare noi stessi"

L'intervista impossibile di Luigi Pirandello al ventenne siciliano di Vittoria

di MARCO PASTONESI

Giro d'Italia Under 23: 10 giorni (dal 7 al 15 giugno), 11 frazioni (un cronoprologo, otto tappe e due semitappe, di cui una ancora a cronometro), 1210,5 km da Forlì a Ca' del Poggio (Treviso), 176 corridori di 30 squadre, il meglio del ciclismo giovanile internazionale. Stavolta "Libri nel Giro" (il progetto dell'associazione Ti con Zero, per la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza e le Biblioteche di Roma) propone una serie di interviste cicloletterarie.

Luigi Pirandello intervista Giuseppe La Terra Pirrè. Dorsale 186, vent'anni, siciliano di Vittoria, del Team Mastromarco Sensi Nibali.
"Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo" ("Il fu Mattia Pascal", 1904).

"Mi chiamo Giuseppe La Terra Pirrè. Due cognomi perché erano due famiglie, e quando si sono unite, nessuno ha voluto rinunciare. Però in paese esistono anche i La Terra e i Pirrè separati".
"Io sono nato in Sicilia e lì l'uomo nasce isola nell'isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall'aspra terra natìa circondata dal mare immenso e geloso" (dal discorso pronunciato da Luigi Pirandello in morte di Giovanni Verga, 1922).
"Io sono nato a Vittoria, e Vittoria, per chi fa sport, è un nome molto pesante. Nel ciclismo presuppone grandi volate, grandi scalate, grandi fughe, grandi scatti. Io sono sempre stato piccolino, adesso sono alto un metro e settanta, peso cinquanta chili, e mi considerano uno scalatore puro. Vittorie? Qualcuna".
"La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma" ("Novelle per un anno", 1922).
"Il mio babbo, Salvatore, ha un'azienda agricola, 33mila metri quadrati, produce pomodori, qualità ciliegino, che sono buoni, ma i nostri ancora meglio, perché più freschi e più genuini. Per smettere di fumare, cominciò ad andare in bicicletta, e ci riuscì, e gli venne anche la passione, che trasmise a me e a Samuele, allievo al secondo anno. Mamma Daniela era operatrice socio-assistenziale in una casa-famiglia, adesso è casalinga".
"Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo" ("Umorismo", 1908).
"La prima bici, una Vicini. Non si riusciva a trovare una bici adatta a me, perché ero piccolino, ma avevo talmente tanta voglia di correre che alla fine la trovai. La prima corsa proprio a Vittoria, ero emozionatissimo, la conclusi in gruppo, ero strafelice. La mia società era la Multicar Amarò, maglia azzurra e bianca. E la prima vittoria non si può dimenticare, dopo tanta sofferenza perché ero il più minuto, il meno sviluppato: in notturna, a Solarino, la Coppa Santa Venera, arrivai da solo, io piangevo dalla gioia, gli altri pure".
"Naturalmente anche tu andrai via dalla Sicilia, ma non dimenticare il profumo" ("Bellavita", 1914).
"Poi, per poter correre, andai via dalla Sicilia. Ero junior, prima con una società di Caneva, in Friuli, poi con una toscana. E adesso ancora in Toscana, a Mastromarco, dove c'erano stati altri siciliani, da Damiano Caruso a Vincenzo Nibali, da Danilo Napolitano a Cristian Benenati, qui al Giro Under 23 c'è anche Francesco Romano. E' il nostro destino. A Mastromarco vivo in una casetta con altri corridori, camere a tre letti, ma siccome gli altri due tornano spesso a casa, Covili a Pavullo, Antonelli a San Marino, per la maggior parte del tempo dormo da solo".
"E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente" ("Umorismo", 1908).
"La bicicletta è tutto. E' vita, è scuola, è famiglia. E' sacrifici e rinunce, anche piacere e divertimento. E' viaggiare, fuori e dentro di sé. E' regole. La bici mi forma come uomo, nel fisico e nella disciplina. E se non riuscirò a diventare un corridore professionista, però dalla bici avrò avuto comunque grandi insegnamenti".
"La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate" ("Uno, nessuno e centomila", 1926).
"Il ciclismo, per me, sono le salite. Le salite sono un miscuglio di persone e posti. Gli scalatori sono particolari: hanno una voglia superiore, danno più del normale, cercano sempre di superare se stessi. Marco Pantani diceva che andava forte in salita per abbreviare l'agonia. Non so se è proprio così. Si patisce uguale".
"Don Lollò, la giara s'è rotta" ("La giara", 1928).
"I siciliani sono generosi, orgogliosi, speciali. Gente, se così si può dire, affamata. Non è che si sentano esclusi, però meno considerati. Per questo hanno voglia di emergere e farsi valere. Non ci fa paura nessuno e niente. Nel ciclismo metto il massimo impegno, tutte le mie forze".


LIBRI NEL GIRO 2018 - Interviste impossibili - Dainese si presenta: è nata una stella

L'intervista impossibile di Margherita Hack al 21enne veneto

di MARCO PASTONESI

Giro d'Italia Under 23: 10 giorni (dal 7 al 15 giugno), 11 frazioni (un cronoprologo, otto tappe e due semitappe, di cui una ancora a cronometro), 1210,5 km da Forlì a Ca' del Poggio (Treviso), 176 corridori di 30 squadre, il meglio del ciclismo giovanile internazionale. Stavolta "Libri nel Giro" (il progetto dell'associazione Ti con Zero, per la Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza e le Biblioteche di Roma) propone una serie di interviste cicloletterarie.

Margherita Hack intervista Alberto Dainese. Dorsale 42, ventuno anni, veneto di Abano Terme, della Zalf Euromobil Desiree Fior.

"Una bicicletta tutta mia, pesante, senza marce, ma subito ridipinta tutta d'argento per farla sembrare da corsa" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"La mia prima bici da corsa è stata una Fondriest. Avevo 14 anni, categoria allievi primo anno, correvo per la Padovani, maglia bianca e verde. La prima corsa non me la ricordo. La prima vittoria neanche. Ma l'ultima sì, forse perché è stata la più bella: lo scorso aprile, nel Città di San Vendemiano. E un'altra bella vittoria da junior, al Giro di Basilicata, in maglia azzurra".
"Si va abbastanza forte per assaporare l'ebbrezza della velocità e coprire distanze più lunghe di quelle che si fanno a piedi. E si va abbastanza piano per poter gustare il paesaggio e immergersi nella natura e nei suoi odori, cose impossibili in automobile" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"La bici è fatica, il ciclismo è lo sport più duro e anche quello che mi affascina di più, è quello che ha la maggiore durata e, a tratti, la più alta intensità. Bici e ciclismo sono per il 50 per cento passione e per l'altro 50 lavoro".
"La domanda di rito, che rivolgevo a ogni nuova persona che incontravo, sia che fosse un ragazzino come me o un amico dei miei era: sei per Binda o per Guerra? Io ero per Binda" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"Io sono per Valentino Rossi, anche se va in moto e non in bici. In moto vado anch'io, anzi, andavo, noi rischiamo in bici, non possiamo rischiare di farci male anche in moto. E poi tengo alla Juve nel calcio, tengo a Lebron James e Mike Westbrook nel basket...".
"Forse è vero che quando si è giovani non si pensa ai possibili pericoli, si gusta solo l'ebbrezza della velocità, del vento in faccia che porta il profumo delle piante" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"La volata è adrenalina, la salita è tenacia, resistenza, stimolo a tenere duro, la discesa è brivido, la pianura è velocità. Sono un velocista puro. Ma cerco, voglio, imparo a difendermi anche su strade meno piatte e diritte. L'altro giorno, nella tappa di Sestola, con l'arrivo in salita, sono arrivato tredicesimo, poco lontano dai primi, ed ero quasi contento come se avessi vinto".
"Sul piazzale, cercando di girare, finii sul ghiaino e poi per terra; ero terrorizzata all'idea di aver rotto la bici, ma per fortuna si era solo storto un po' il manubrio".
"Nella tappa di Pergine mi sono steso dopo una decina di chilometri. Ginocchio, gomito... Peccato, era una tappa adatta a me. E la bicicletta, io saprei anche aggiustarmela da solo".
"Le tappe del Giro d'Italia erano spaventosamente lunghe, duecento e più chilometri, su strade sterrate e polverose, dove frequenti erano le forature" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"Nella tappa di Dimaro, mai avrei pensato di farmi staccare in discesa. E' successo quando sono andato dietro, dall'ammiraglia, per restituire la mantellina: il gruppo ha allungato, si è creato un buco, sono rimasto indietro. Abbiamo lottato per chilometri, siamo riusciti ad arrivare fino a una cinquantina di metri, ma poi siamo stati ricacciati. Qui bisogna fare attenzione a tutti i movimenti, anche quelli che sembrano più innocui".
"Quell'estate del 1938, cominciai a fare lunghe gite in bicicletta, qualche volta alle Cascine con compagni e compagne, ma più spesso da sola" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"Ci si può sentire solo quando ci si allena, ci si può sentire soli anche in gruppo quando si fa tanta fatica e ti chiedi chi te lo abbia fatto fare. In corsa si parla, si pensa, si spera, e quando ci si concentra, non resta più altro che strada, gara, lotta, sfida. L'importante non è partecipare, ma vincere".
"Devo concludere che non avrò una quarta giovinezza e dovrò decidermi ad attaccare la bicicletta al chiodo" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"Mio padre è ingegnere civile, mia madre insegnante di lettere in un liceo, io mi sono diplomato in un istituto tecnico. Il ciclismo, da professionista, è quello che voglio fare. Ma se dovesse andarmi male, allora mi iscriverei all'università: Ingegneria, però meccanica".
"Andavo via verso le nove con un panino e un pezzettino di parmigiano" ("La mia vita in bicicletta", Ediciclo, 2011).
"Doping? Sono pulito. La maggior parte dei corridori è pulita. Qualcuno bara, come dovunque. Per me è una questione di onestà, rispetto, regola. I sacrifici pagano, nel ciclismo come nella vita. Il ciclismo mi rende una persona migliore".


cuor di pedalata

UN CUORE DI PEDALATA – Aspettando il Giro

Una bicicletta porta donne e uomini, nonni e nipoti. Una bicicletta porta corridori e turisti, viandanti e gitanti. Una bicicletta porta lavoratori e studenti, bambini e pensionati. Una bicicletta porta la spesa del mercato e gli strumenti del lavoro. La nostra bicicletta porta libri. Li porta dove di libri c'è mancanza, bisogno, esigenza e urgenza. Li porta perché i libri contengono le vite, le nostre vite, le vite di tutti,le vite di sempre.

In collaborazione con le Biblioteche di Roma, il Coordinamento Roma ciclabile e Istituto Comprensivo Pablo Neruda di Roma

“Aspettando il Giro”, voluto dalle Biblioteche di Roma e finanziato dalla Regione Lazio con la legge regionale 23 ottobre 2009, n. 26 - Avviso pubblico “La Cultura fa Sistema”

 

https://www.youtube.com/watch?v=K6N3ucEB-J4&feature=youtu.be


Quel maggio del '68. "Voglio una bici", e così Gigi Sgarbozza vinse una tappa al Giro

di MARCO PASTONESI

Da piccolo stufava tutti: "Voglio una bici, voglio una bici", ripeteva. Finché gli sportivi - gli amici del bar dello sport ad Amaseno, a metà strada tra Frosinone e Terracina - organizzarono una colletta, tirarono su una cifra, comprarono una Legnano e gliela regalarono, poi, sfiniti, gli dissero: "E adesso pedala". Così Luigi Sgarbozza detto Gigi o Gigetto si ritrovò al Giro d'Italia. Mestiere velocista anche se era alto la metà di Dino Zandegù e pesava la metà di Marino Basso, secondo anno da professionista e vittorie in carriera zero, aveva 23 anni e un sogno. Questo.

"Quattordicesima tappa, da Vittorio Veneto a Marina Romea, 194 chilometri, la fuga nata dopo 50-60, 17 corridori, nessuno di classifica, giornata di libertà per tutti, giornata di gloria per uno solo. Avevo un compagno di squadra, Guido Neri, ma lui non volle mettersi a mia disposizione, e io non volli mettermi a suo servizio, così ognuno fece la sua corsa. Mi guardai intorno, studiai la situazione, mi concentrai su un francese, Charly Grosskost, maglia della Bic, quell'anno secondo alla Milano-Sanremo e primo nel cronoprologo al Giro, puntai tutto su di lui e a qualche chilometro dall'arrivo m'incollai alla sua ruota. Ultimo chilometro, meno 800, meno 600. Senonché, a 400 metri dal traguardo, lui era sedicesimo e io diciassettesimo. Capii che non era la ruota giusta. Rimontai, li rimontai tutti, a uno a uno, l'ultimo fu un tedesco, Wilfried Peffgen, e vinsi".

Gigi sapeva che cosa fosse il ciclismo ancora prima di salire su una bici e attaccarsi il dorsale: "Perché sapevo che cosa fosse la fatica. Quinta elementare, poi cinque anni come fabbro. Lavoravo senza maschera, e la notte, per riprendermi, dormivo con due fette di patate sugli occhi. Intanto scuole serali ed esame di terza media. A 15 anni emigrai a Roma, a Cinecittà, da una zia. Trovai lavoro come tecnico idraulico. Sveglia alle 5, due ore di allenamento, alle 7 e mezzo in tram a lavorare in un cantiere ai Parioli. Finché trovai un impiego in uno studio cinematografico. Proiettavo anteprime per attori e attrici: Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Brigitte Bardot. Si finiva di notte, ma la notte era illuminata a giorno dai flash dei paparazzi".

Però c'era la bici, c'era il ciclismo, c'era il Giro d'Italia. "Nella Max Meyer, quella del barattolo rovesciato e il cane con il pennello in bocca, una squadra abbastanza forte, fatta di combattenti, che correvano alla garbaldina. Michelotto: serio, anche troppo. Neri: furbo, veloce. Durante: amico, dormivo con lui. Ballini: di classe, ma discontinuo. Galbo: pazzo, burlone. Cucchietti: l'ombra di Galbo, inseparabile. Fantinato: duro, forte. Stefanoni: un gigante buono... Direttore sportivo: Gastone Nencini, troppo bravo per vivere in questo mondo, ero suo tifoso quando correva, ero suo tifoso anche quando dirigeva. Si campava un po' con lo stipendio, poco più alto di quello di un operaio, un po' con i premi, che si dividevano fra tutti i compagni, un po' con la gloria, eravamo personaggi, giravano delle donne, a noi come ai giornalisti, era una cosa naturale, poi bisognava decidere se fare la vita del corridore o no. E si campava anche con qualche trucco. Uno lo avevo imparato da un collega, Giancarlo Polidori. In salita si lamentava, disperato: 'Mi è saltata la catena'. E gli spettatori, impietositi, lo spingevano".

Era il '68. "Ma noi corridori pensavamo a correre, chiusi nella nostra strada e nella nostra fatica. Però qualcosa si sentiva, si vedeva, si intuiva. E si ascoltava. Io avevo una passione per Adriano Celentano. Lo incontrammo ad Amatrice, stava girando il film 'Serafino', eravamo nello stesso albergo,

fu una fortuna. E poi Fabrizio De André. Poco tempo fa mi è stata rubata la macchina nel centro di Grottaferrata, dentro avevo tutti i cd di De André. Mi è dispiaciuto più per i cd che per la macchina. Quasi. Smisi di correre a 28 anni. Troppo presto. La Max Meyer squadra si era sciolta, ma era rimasta la società. Fui assunto come rappresentante. Avevo successo: i clienti mi riconoscevano e acquistavano vernici anche se non ne avevano bisogno"


Quel maggio del '68: quando Armani 'scoprì' Merckx

L'italiano ha sempre legato la sua vicenda a quella del Cannibale - sia da avversario che da compagno di squadra - a partire dai mondiali dilettanti a Sallanches nel 1964. Il tutto fino ad una tappa storia del Tour, quando giunsero al traguardo dopo 250 km di fuga

di MARCO PASTONESI

Luciano Armani fu il primo italiano a scoprire Eddy Merckx. A sue spese. E ne avrebbe fatto volentieri a meno. Mondiali dilettanti 1964, a Sallanches, in Francia. Due uomini al comando: loro due. Mancavano due chilometri al traguardo: Armani pensava di battere Merckx in volata, anzi, ne era quasi certo, ma alla volata neppure arrivarono, perché Merckx si sfilò Armani dalla ruota come se fosse un bambino e vinse, braccia al cielo. Sul palco, il giornalista francese Leon Zitrone intervistò Merckx pubblicamente, poi concluse scandendo nome e cognome, "Ed-dy-Merckx", e ammonendo gli spettatori: "Ricordatevi bene questo nome!".

"Me lo ricordavo bene quando, quattro anni dopo, Merckx fu ingaggiato nella mia squadra, la Faema, con la maglia di campione del mondo, stavolta dei professionisti. Il primo raduno, due settimane, a Cannitello, una frazione di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. La Faema era metà belga e metà italiana, metà corridori fiamminghi e metà corridori emiliani, noi ci allenavamo una volta al giorno, la mattina, loro due volte al giorno, la mattina e il pomeriggio. Quando il direttore sportivo, Vincenzo Giacotto, ci disse che avremmo dovuto fare come loro, Vittorio Adorni, il corridore più esperto e il capitano degli italiani, ci ordinò di seguire i belgi, di nascosto, il pomeriggio. I fiamminghi uscirono dall'albergo, fecero 5-6 chilometri in bici, poi si fermarono in un bar, si sedettero a un tavolo e ordinarono da bere. Adorni li minacciò: 'Faccio la spia'. 'No', lo pregò Merckx. 'Allora da adesso si fa come dico io', ribatté Adorni. E così fu".

La prima corsa del 1968 fu il Giro di Sardegna: "L'anno prima avevo vinto io e Merckx era arrivato secondo. 'Stavolta mi lasci vincere?', mi domandò Merckx, sorridendo. Infatti: primo Merckx, secondo io, e il grande regista era stato Adorni, terzo. Al Giro d'Italia eravamo tutti per Merckx. Io ebbi due giornate di libertà entrando in due fughe buone: la prima a Piacenza, nel finale si andava a scatti, persi l'attimo, sesto, e la seconda alle Tre Cime di Lavaredo, avevamo 10 minuti di vantaggio, mi ero risparmiato, poi Merckx venne a prenderci tutti, quinto. Giacotto mi sgridò: 'Ricordati che nella mia squadra chi va in fuga ha l'ordine di vincere'. Come se fosse facile, come se non ci avessi pensato e provato".

Armani che veniva da famiglia numerosa ("Dodici, tra genitori, zii e fratelli"), che aveva fatto le elementari ("Poi la quinta e la sesta, poi basta"), che si era innamorato della bicicletta da corsa ("Il regalo per la cresima"), che cominciò subito a lavorare ("Garzone a Felino in una salumeria di classe, in bici, due ceste, una davanti e l'altra dietro, per portare la spesa ai clienti ricchi"), che disputò la prima corsa a 18 anni ("Vincere era arrivare al traguardo"), che finalmente vinse ("La Torrechiara-Corniglio, cronocoppie"), che corse otto anni da professionista ("E rifarei tutto quello che ho fatto"). Armani che un giorno si sarebbe finalmente preso una solenne rivincita proprio su Merckx, da avversario: "Tour de France 1971, giorno di riposo, nello stesso albergo della squadra di Merckx. Noi ci eravamo sciolti i muscoli, loro si erano allenati a tutta per due ore e mezzo. Nell'androne Merckx imprecava, da solo, in fiammingo. Mi vide

e mi disse: 'Domani, se vuoi arrivare fra i primi, alla partenza sta' davanti'. C'era una discesa. Merckx e i suoi attaccarono, due spagnoli della Kas deragliarono, si scatenò la guerra, partì la fuga con Merckx, ci entrai anch'io, volammo i quasi 250 chilometri a quasi 45 e mezzo di media, piombammo al traguardo un'ora e mezza prima del previsto, a Marsiglia allo sprint primo io e secondo Merckx, e il sindaco giunse a premiazioni già finite"


Quel maggio del '68 - Renato Laghi, l'uomo che non cadeva mai

"Nell'edizione di 50 anni fa pioveva sempre, ma nonostante tutta quell'acqua, non caddi mai, né in quel Giro né negli altri 11. La verità è che per stare alla larga dei guai prendevo un sacco di aria..."

di MARCO PASTONESI 

Renato Laghi s'innamorò della bicicletta, del ciclismo e della vita a cinque anni: andò a vedere il Giro di Romagna, si mise sul bordo della strada, c'era un uomo solo al comando ed era Fausto Coppi, per il secondo corridore dovette aspettare cinque minuti. "Il Giro d'Italia del 1968 fu il primo dei miei 12, il più bello, perché in salita stavo sempre con i migliori e i giornalisti mi giudicarono la rivelazione fra i giovani. Avevo 23 anni, ero magro come un chiodo, correvo per la Germanvox, gregario per Vito Taccone, abruzzese, e Ole Ritter, danese. La corsa era gestita da due squadroni, la Faema di Merckx e la Salvarani di Gimondi, le altre squadre cercavano giornate di gloria. Si corse sempre sotto la pioggia: se si cominciava con il sole, si finiva con un temporale, e se si cominciava con un temporale, a volte si finiva con il sole. Siccome ci andai con una bronchite e il catarro, mi curavo con l'aerosol e la bici. E nonostante tutta quell'acqua, non caddi mai, né in quel Giro né negli altri 11, la verità è che per stare alla larga dei guai prendevo un sacco di aria. Il direttore sportivo era Italo Mazzacurati, che era stato un campione, ma fra i gregari, e amava divertirsi. Alla sua maniera. Un giorno non resistette alla tentazione: davanti a un muro di folla, fermò l'ammiraglia, prese una bicicletta, ci saltò su e pedalò contro gli spettatori per farsi largo e mettergli paura, gli spettatori si scansarono e lui centrò uno spartitraffico. Lo ritrovammo al traguardo ferito alla faccia, con un asciugamano insanguinato fra le mani".

Il '68 era un anno da "Processo alla tappa": "Taccone aveva il monopolio, bastava lui a rappresentare tutta la squadra, però io avevo un alleato in Guerrino Farolfi, mio compaesano, che era stato corridore ed era il braccio destro di Adriano De Zan, e mi citava ogni volta che poteva, 'il faentino Laghi', e a casa erano tutti contenti. Taccone aveva due facce, una buona e l'altra cattiva, da una parte era simpatico e dall'altra vendicativo, da una parte egoista e dall'altra generoso, quando eravamo in ritiro nella foresteria del Velodromo olimpico a Roma mi disse di andare - in bici - a casa sua, ad Avezzano, 140 chilometri, ci fermammo a mangiare e a dormire, e il giorno dopo ritornammo in ritiro".

Il '68 era un anno da Vincenzo Torriani, il patron del Giro: "Era deciso e geniale, ma anche tirannico e irascibile". Il '68 era un anno da figurine Panini: "A 50 anni di distanza sono andato a cercare la mia su eBay, il prezzo base è di tre euro e mezzo, non pensavo di valere così poco". Il '68 era un anno di grandi giornalisti: "Luigi Chierici, Ermanno Mioli e Dino Ronchi per 'Stadio', Gianni Mura era alla 'Gazzetta dello Sport' e veniva sempre in caccia di notizie, e della 'Gazzetta' era anche Luigi Gianoli, che veniva a intervistarmi quando facevo il bagno o i massaggi". Il '68 fu anche l'anno delle Tre Cime di Lavaredo: "Ero nella fuga iniziale, fui ripreso a 2 chilometri dal traguardo prima da Merckx e poi da Adorni, sotto la neve e sul ghiaino spingevo - faticosamente - il 44 davanti e il 25 dietro, all'arrivo fui avvolto in una coperta militare dagli alpini".

Il '68 era anche il '68 delle lotte sociali: "Il ciclismo stava fuori dalla società. Noi, in squadra, parlavamo romagnolo e pedalavamo oppure giocavamo a carte. Guadagnavo 80mila lire al mese, un operaio 60mila, ma anche se io per 10 mesi e l'operaio per 12, guadagnavo sempre di più io, e con la vita che facevamo quello mi sembrava un grande privilegio"


Quel maggio del '68 - Mario Mancini: "Dopo le Tre Cime di Lavaredo rimasi congelato 5 mesi..."

Marchigiano, c'era anche lui nella tappa più dura del Giro di 50 anni fa: "Fui caricato su una macchina, portato in un albergo e immerso in una vasca piena di acqua calda. Ma a novembre avevo ancora le punte delle dita che mi pizzicavano"

di MARCO PASTONESI 

ROMA - Cinquant'anni fa c'era anche lui su una bici, con il dorsale, al pronti-via da Campione d'Italia e poi all'arrivo a Napoli, per 3917 chilometri, in tv e sui giornali: Mario Mancini, della Kelvinator, sessantunesimo nella classifica finale, con un ritardo di due ore, 25 minuti e 21 secondi dal primo, Eddy Merckx, ma con un vantaggio di un'ora, 18 minuti e 37 secondi sul novantesimo e ultimo, Giuseppe Poli.

Chilometro zero: "Marchigiano di Potenza Picena. Famiglia contadina. Mio padre era un coltivatore diretto. Si faceva un po' di tutto, innanzitutto per la famiglia, e se avanzava qualcosa, si vendeva. Nato il 25 dicembre del '43: una fregatura doppia, la prima perché successe sotto i bombardamenti, fra casa e rifugi antiaerei, la seconda perché i regali di Natale erano anche quelli del compleanno, e quelli del compleanno erano anche quelli di Natale. Una sorella, due fratelli, io il terzo dei quattro. In seconda media ho smesso di studiare e cominciato a lavorare, meccanico".

Traguardo volante: "In casa si respirava ciclismo, mio padre correva, era bartaliano, e quando c'era il Giro d'Italia mi mandava ogni mattina a comperare 'Stadio', l'edicola stava a un chilometro, avevo cinque o sei anni, andavo e tornavo a piedi. La prima bici era quella della mamma, una bici da donna, 15 chili, con quella andai a vedere il Giro d'Italia, sull'Adriatica, discesa al'andata ma salita al ritorno, avevo 8-9 anni, i miei amici 4-5 più di me, poi ero così stanco che passai due giorni a letto con la febbre. La prima bici, mia, a 13 anni, arrangiata, un pezzo qua e un pezzo là. La mia prima corsa da esordiente, a 15 anni, su una bici della società, io ero piccolino e la bici, anche se con la sella bassa, era comunque alta, finché alla fine della stagione ne ereditai un'altra da un dilettante, e con quella volavo".

Fuga: "Da dilettante correvo in Toscana, nel 1966 diventai campione toscano, vinsi anche il Giro del Casentino e la Firenze-Viareggio, fui convocato in azzurro per la Praga-Versavia-Berlino ma la squadra non mi lasciò andare. Il passaggio al professionismo fu supermeritato. Ma il primo anno, alla Germanvox, non ingranai la marcia. Invece il secondo, alla Kelvinator, andò meglio. Al Giro ero con Lievore, Benfatto, Negro... In un filmato delle Tre Cime di Lavaredo mi sono riconosciuto, dietro una moto della polizia, sotto la neve, congelato, dopo la tappa fui caricato su una macchina, portato in un albergo a Cortina d'Ampezzo e immerso in una vasca piena di acqua calda, eppure cinque mesi dopo, a novembre, avevo ancora le punte delle dita che mi pizzicavano".

Controfuga: "Dopo il Giro d'Italia vinsi un circuito, a Figline Valdarno, in notturna. Fu un errore: non avrei dovuto vincere, quella vittoria mi costò caro, c'era anche Mealli che era l'idolo locale, così non venni più invitato ai circuiti, e i circuiti prevedevano guadagni. Però quell'errore mi servì per non commetterne altri nella vita normale".

Traguardo: "Smisi di correre alla fine del 1968 anche se le due ultime corse andai forte, quattordicesimo alla Coppa Agostoni, con tutti i migliori, e diciottesimo al Giro di Lombardia, ottavo degli italiani. Il '68 lo avevamo vissuto di lato, noi pensavamo di più a correre in bicicletta. Andai a lavorare, prima in un frutta & verdura, poi in una fabbrichetta di plastica. Nel tempo libero continuai a pedalare e a gareggiare, e finalmente imparai anche a correre: fino a quel momento non sapevo limare le ruote, così non riuscivo a stare in gruppo, prendevo sempre un sacco di aria e vento. E adesso, da nonno, con cinque nipotini, tutti maschi, in bici ci vado ancora".


Giro giro Tondo. Diorami e teatrini dedicati al ciclismo

W LA BICI viva Feltre
7 aprile ore 16.30 Palazzo Borgasio
Inaugurazione

Vite su due ruote. Una mostra sulla bici nel bellunese per "W la bici viva"

INIZIATIVE | C’è Fausto Coppi in salita al Giro d’Italia. C’è Marcello Mugnaini primo nella tappa di Pedavena. E ci sono soprattutto ambulanti ed emigranti, arrotini e gelatai, gitanti e amiche. Tutti in bicicletta.

“Vite su due ruote” è la mostra sulle biciclette nel Bellunese, organizzata dall’Archivio fotostorico feltrino con la collaborazione del Comune di Feltre, il Museo Etnografico di Seravella, il Museo storico della bicicletta di Cesiomaggiore e l’associazione Ti con Zero. Cinquantun pannelli 50x70 esposti a Feltre, nella piazza Maggiore e nelle vetrine dei negozi del centro storico, dal 5 al 15 aprile, nell’ambito del festival “W la bici viva”.

E’ una ricerca che parte da lontano insieme con la Comunità montana feltrina: “Dalle raccolte pubbliche e dai circoli fotografici fino ai privati – spiega Francesco Padovani, responsabile del servizio cultura della Biblioteca di Pedavena e dell’Archivio fotostorico feltrino -. Poi, selezionando e scegliendo insieme con Daniela Perco, ex direttrice del Museo Etnografico di Seravella e responsabile del Museo storico della bicicletta di Cesiomaggiore, abbiamo privilegiato tre aspetti: il mondo del lavoro, fra i locali e gli emigranti; quello delle famiglie, dai nonni ai nipoti; e quello dello sport, comprese le prime forme di cicloturismo.

Confrontando il materiale trovato sulle bici con quello che avevamo collezionato sulle moto per una precedente mostra, abbiamo scoperto una minore ricchezza. Un po’ perché le strade in salita scoraggiavano l’uso delle bici, un po’ perché le bici comunque costavano, e ancora fra gli anni Quaranta e Cinquanta rappresentavano uno status-symbol per gli abitanti di questa zona che era economicamente depressa. Qui si viveva con poco: quello che dava il campo, una mucca, il bosco”.

Quella bambina degli anni Venti con un triciclo che oggi sarebbe il vanto di qualsiasi museo. Quel venditore ambulante degli anni Trenta con stracci e battipanni appesi al manubrio. Quei quattro aitanti corridori del Gruppo ciclistico feltrino negli anni Trenta. Quel seggiolaio degli anni Quaranta – di spalle - con il suo carico di paglia. Quei due operai degli anni Quaranta diretti a svolgere lavori stradali (e in equilibrio tenendo il piede destro appoggiato a una lattina e a un sasso). Quell’emigrante ritratto a Parigi in studio, in bici con giacca, panciotto, farfallino e orologio a cipolla, come per dimostrare di avere fatto fortuna. E quella balia di Lamen, anche se ritratta a Genova, nel 1948, con un bambino da latte in carrozzina e il fratellino più grandicello in bicicletta. Le biciclette sono qui un movimento centrale, un viaggio sentimentale, una pedalata conduttrice nella storia e nella geografia, nell’abbigliamento e nelle mode. L’impressione è quella di un album di famiglia, una famiglia allargata e allungata nel tempo, fatta di facce e polpacci, di baffi e pettinature, di pose e sorrisi, di dignità e orgoglio, di protagonisti e comparse, di sguardi e abbracci. Per ogni scatto, la didascalia e la fonte, a volte perfino il nome e il cognome.

“Questa è solo la punta di un iceberg, la partenza di un percorso nel nostro territorio, il pronti-via di una serie di mostre – sostiene Padovani -. La ricerca proseguirà non solo negli archivi dei vecchi fotografi, ma anche negli armadi e nei cassetti della gente comune. E se il patrimonio dei vecchi fotografi sembra quasi tutto disperso, quello della gente comune appare ancora ricco”. E il progetto di rendere l’esposizione permanente, con un suo spazio nel Palazzo Borgasio di Feltre, aiuterà ad aprire questi antichi scrigni. Meglio se sabato 7, alle 16.30, proprio nel Palazzo Borgasio di Feltre, all’inaugurazione della mostra dei teatrini di carta di Fernanda Pessolano.
La bicicletta: una macchina - fotografica - a pedali nel tempo, una macchina - fotografica - del tempo a pedali.

Info: Assessorato all'Ambiente, città di Feltre tel. 0439885222; www.visitfeltre.info; FB Visit Feltre; FB W la bici; FB Biblioteca della Bicicletta Lucos Cozza; Telegram Feltre cultura

 

 

Marco Pastonesi - L'ora del pasto - Tuttobiciweb


LIBRI nel GIRO. BCI chiama Pace. Le storie: Coenelis Blekemolen. Il 31 luglio 1914 s’inaugurarono i Mondiali di ciclismo su pista, a Copenaghen, in Danimarca. Ma più che aria di sport, tirava vento di guerra. Tre giorni prima l’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia, il giorno prima la Russia aveva annunciato la mobilitazione generale, e quello stesso giorno la Germania aveva inviato l’ultimatum alla Russia. Eppure la speranza per una risoluzione pacifica viveva ancora. La prima gara dei Mondiali di ciclismo era quella del mezzofondo dilettanti: fu vinta da un olandese, Cornelis Blekemolen. La seconda gara in programma era quella della velocità: ma non ci fu neppure il tempo per disputarla. Lo “starter” stava per dare il via alla prima batteria della competizione, quando venne fermato dallo “speaker”, che con il megafono annunciò la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. La fine dell’inizio (dei Mondiali) e l’inizio della fine (del mondo). La manifestazione fu sospesa, le altre gare cancellate. I corridori, da guerieri in pista, diventarono soldati in trincea. Blekemolen, “Cor” ma anche “Blekie”, era nato ad Amsterdam il 7 febbraio 1894. Figlio di un macellaio, si era innamorato delle due ruote lavorando in un negozio di biciclette come fattorino e fu introdotto nel mondo ciclismo grazie a conoscenze con corridori dell’epoca. Fece la sua gavetta: le prime corse a 15 anni, il primo piazzamento a 18, terzo nel campionato olandese su strada, la prima medaglia a 19, bronzo ai Mondiali di Lipsia nel mezzofondo, preludio dell’oro l’anno dopo a Copenaghen. Blekemolen tornò a correre dopo la Grande Guerra: divenne popolarissimo, lo chiamavano – succedeva sempre così, quando uno dei Paesi Bassi finiva in alto - “l’Olandese Volante”, ma lui era speciale, parlava sei lingue e fumava sigari. Sposò una cantante di operetta, frequentava sale teatrali e set cinematografici, e durante la Seconda guerra mondiale organizzava riunioni di ciclismo in teatri, dove i corridori si affrontavano in biciclette sui rulli. Continuò a dividersi fra ciclismo e spettacolo: allenatore in pista e manager a Utrecht, ma anche direttore del Churchill Theatre di Hilversum. Blekemolen morì il 28 novembre 1972, a Hilversum. Fu il suo ultimo volo.

Giro d'Italia 2010
Giro d'Italia 2010